Gesti e parole di papa Francesco

Dopo i primi cento giorni di pontificato, i primi eloquenti messaggi lanciati dal vescovo di Roma
Papa Francesco con un bambino

“Il bel tempo si vede dal mattino”. Il “mattino” di papa Francesco – i suoi primi 100 giorni – fa sperare un “bel tempo” per il futuro della Chiesa.

Nel primo saluto dalla loggia di san Pietro, nel giorno della elezione, papa Bergoglio lanciava già i primi eloquenti messaggi del suo pontificato.

Il primo gesto è stato quello di presentarsi con abito semplice, preludio di uno stile sobrio, che ripudia pomposità e orpelli retaggio del barocco e di una concezione regia del papato. Gesto consolidato dalle liturgie essenziali, dalla scelta di abitare nella casa Santa Marta e non nell’appartamento pontificio, del modo di ricevere in udienza le personalità.

Il secondo gesto è stata la richiesta di preghiera rivolta al popolo prima di benedirlo, segno del riconoscimento del sacerdozio e del valore del popolo di Dio. Non è nuovo a questi segni; tra le storie che circolano su quando era arcivescovo di Buenos Aires, si racconta che si era inchinato anche davanti al predicatore evangelicale Luis Palau.

Il terzo è stato dichiararsi vescovo di Roma, senza appellarsi al titolo di papa, apertura al dialogo ecumenico e alla collegialità episcopale, che ha avuto subito i suoi effetti nella presenza di Bartolomeo I e di Karekin II alla celebrazione dell’inizio di pontificato.

Il quarto è stato l’invito a pregare “per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza”: apertura universale e una chiara meta: la fraternità.

Il quinto è stato far prendere coscienza che il cammino che iniziava in quel momento si sarebbe dovuto proiettare verso l’evangelizzazione: “che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo…sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella!”.

I gesti di quella sera erano soltanto preludio di ulteriori gesti che sono continuati in seguito: la visita ad un cardinale amico ricoverato in ospedale, la lavanda dei piedi ai giovani carcerati, tra cui una ragazza musulmana, con un’omelia di tre minuti; la vicinanza fisica alla gente; la messa quotidiana con il personale del Vaticano, cominciando dai netturbini; scendere dalla camionetta per abbracciare un paralitico, mettere il ciuccio in bocca a un bambino che piange impaurito… Gesti che non si improvvisano, ma che gli sono diventati abituali nel lungo esercizio di una vita di pastore; gesti che parlano più delle parole, o che danno sostanza alle parole.

Ma anche comunione e collegialità come stile di governo, che già si intravede nelle scelte di ogni giorno: contatta personalmente i collaboratori, elimina i filtri della burocrazia vaticana, rimanda i problemi ai dicasteri competenti convinto della sussidiarietà… Clamoroso il gesto di affidare a otto cardinali, scelti da tutti i continenti, lo studio per la riforma della Curia.

Con i gesti le parole, che da quelli acquistano una nuova credibilità. Parole chiave, come “poveri”, “custodire” il creato, l’altro, se stessi, “annunciare”, “testimoniare”, tornano di frequente nei suoi discorsi. Tra le tante vorrei coglierne tre, che mi sembrano particolarmente programmatiche e cariche di speranza.

Novità”, a indicare la volontà di mantenersi aperti e fiduciosi in quelle che chiama le “sorprese” di Dio nella storia. È l’invito a non avere paura, a guardare al futuro, a lasciarsi guidare dallo Spirito che “spinge laChiesa ad andare avanti”, evitando di “addomesticarlo” e di ripudiare la “novità” conciliare. Questa settimana il giornale di Londra, “The Tablet”, titola in copertina: Two of a kind, mostrando le somiglianze e la continuità tra papa Giovanni e Papa Francesco: anche da quest’ultimo ci si devono aspettare novità come dal papa del Concilio.

 “Rispetto e dialogo”. Il giorno della sua elezione ha scritto al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, invitandolo all'inaugurazione del suo pontificato e affermando di voler “contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II, in uno spirito di rinnovata collaborazione e al servizio di un mondo che possa essere sempre più in armonia con la volontà del Creatore”. Stessa apertura verso “la promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose”, ma anche verso chi non ha una fede religiosa: nel primo incontro con i giornalisti imparte una benedizione soltanto con il cuore “rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio”. Che questi gesti e queste parole siano l’inizio di un nuovo dialogo a tutto campo? Nel libro intervista curato da Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, l’allora cardinale Bergoglio affermava: “La cultura dell’incontro è l’unico modo di far andare avanti la famiglia e i popoli”.

L’odore delle pecore” è un’altra delle parole fortunate che, rivolte ai sacerdoti il giovedì santo perché vivano in mezzo alla gente, apre verso un nuovo tipo di pastorale nella Chiesa. Legate a quell’espressione il papa continua a ripetere all’infinito altre due parole eloquenti: “uscire” e “periferie”, andare incontro agli altri lì dove essi sono, alle periferie dell’esistenza. Egli rilegge la parabola di Luca con una nuova attuale cifra matematica: non ci sono più 99 pecore nell’ovile e una smarrita che occorre andare a cercare; nell’ovile ne è rimasta una soltanto, le altre 99 sono fuori ed è inutile stare a “pettinare” l’unica rimasta: “Uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi”.

Abbiamo un papa che porta addosso l’odore delle pecore.

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