Gerusalemme, città chiamata all’unità

Sintesi della relazione tenuta alla Judaean Guest House per il terzo Simposio Giudeo-Cristiano svolto a Gerusalemme dal 22 al 26 febbraio 2009, dal titolo “Walking Togheter in Jerusalem”.
Muro del pianto

L’anno prossimo a Gerusalemme”. Questo l’augurio che ogni anno, per secoli, gli ebrei si sono rivolti al termine della celebrazione della Pasqua. Era il sogno che li ha sostenuti nella diaspora, aiutandoli a superare quel senso di isolamento e di diffidenza, quando non di persecuzione, che spesso ha accompagnato la loro storia tormentata.

 

Non so se anche oggi si ripete quell’antico augurio. Gli ebrei, da qualsiasi parte del mondo, possono andare a Gerusalemme quanto vogliono, anzi l’hanno eletta a capitale dello stato di Israele. Città santa per le tre religioni monoteiste, Gerusalemme vive il travaglio di una convivenza multietnica e multireligiosa che sembra impossibile. Lo testimonia il muro innalzato intorno alla città per difenderla dai Palestinesi, che poi si snoda lungo attorno allo stato di Israele. E pensare che sulla croce, come spiega l’apostolo Paolo, Gesù aveva distrutto il “muro di separazione” fra gli ebrei e gli altri popoli…

 

Attorno alla tomba di Rachele il muro è più alto che altrove. Una donna palestinese, a cui esprimo il mio sconcerto per non poter accedere alla tomba, mi risponde mestamente: “Rachele si nasconde per non mostrarsi ancora in pianto per i suoi figli… Anche questo muro crollerà, come è crollato quello di Berlino”.

Io ho già visto cadere questo muro! Per quattro giorni ho camminato per Gerusalemme assieme ad un gruppo di ebrei. Eravamo quaranta cristiani (di varie confessioni e nazionalità, arabi compresi) e quaranta ebrei (di varie tradizioni, provenienti da mezzo mondo) uniti nella volontà di un dialogo nella verità e nella fraternità. I

 

l tema del simposio, “Gerusalemme, città chiamata all’unità nella diversità”, ci aiuta a riflettere sulla diversità come fonte di reciproco arricchimento, come espressione dell’infinita ricchezza di Dio sperimentabile in mille modi. Ma non sono tanto le conferenze o le testimonianze di dialogo ad avvicinarci tra di noi e a farci riconoscere fratelli, quanto piuttosto alcuni gesti concreti, come il “camminare insieme a Gerusalemme”, fisicamente, oltre che simbolicamente.

 

Dall’alto della rocca di Sion contempliamo insieme il monte degli ulivi, la città di Davide con la piscina di Siloe, la valle del Cedron, il basamento del tempio… e sgorgano spontanee le parole dei Salmi: “Gerusalemme è città ben costruita, in cui tutto è unità”, “Là siamo nati tutti noi”… Tutto parla delle nostre comuni radici, e Gerusalemme ci appare la madre comune e noi ci sentiamo fratelli. Ancora più ci sentiamo tali nel luogo che per noi è il cenacolo e per loro la tomba di David. Ed eccoci alla “scaletta” da dove Gesù, il giovedì santo, è sceso pregando per l’unità e da dove è risalito, prigioniero delle guardie, per pagare l’unità con la vita. Una rabbina argentina canta, in ebraico, il salmo 23: “Il Signore è il mio pastore”, poi ripreso in arabo da cristiani di Haifa.

 

Come camminare insieme a Gerusalemme senza che l’unico Signore sia la nostra guida comune? A nome di tutti, ad alta voce, chiedo quell’unità tra di noi che Gesù lì aveva chiesto al Padre, e un patto d’amore viene stipulato tra noi cristiani ed ebrei. Giunti al Muro Occidentale, il “muro del pianto” preghiamo lo stesso Dio dei nostri Padri e delle nostre Madri, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Sara, di Rebecca e di Rachele, ma anche il Dio di Maria, di Gesù…

 

Tengo la mano sulle pietre del basamento del tempio, ancora calde dei raggi del sole ormai tramontato. Prego a voce alta perché l’unico tempio vivo che ormai formiamo tra di noi si dilati sul mondo intero, là dove stiamo per disperderci, per portare ovunque la presenza di Dio costruita insieme. Ora mi è più facile riflettere sulla città santa.

 

La visione

 

Tre mi sembrano i momenti che caratterizzano Gerusalemme nella prospettiva cristiana: le origini, il cammino storico, l’escatologia.

 

1. Le origini: Gerusalemme punto di attrazione

In Gerusalemme, l’evento della Pentecoste cristiana segna l’inizio della vita della Chiesa. Esso coincide con la celebrazione della festa giudaica delle Settimane, Shavv’ot, e si innesta su di essa.

La Pentecoste giudaica, come è noto, celebrava la commemorazione dell’Alleanza fatta al Sinai fra Dio e il suo popolo. Era la festa del dono della Legge, che aveva fatto delle tribù di Israele il popolo di Dio. Quell’evento, nella Pentecoste cristiana, diventa la prefigurazione del dono della legge nuova e della costituzione del nuovo popolo di Dio, innestato sul popolo eletto ed in continuità con esso; evento questo, che si opera proprio a Gerusalemme con la discesa dello Spirito Santo. Per noi cristiani è il compimento della profezia di Ezechiele: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di noi uno spirito nuovo… Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratiche le mie norme” (36, 26-27).

 

La legge nuova portata da Gesù, riassunta nel comando che ha detto suo e nuovo, ossia il comando dell’amore reciproco, è ora promulgata con la discesa dello Spirito, che la scrive non più su tavole di pietra, ma nel cuore dei credenti. Guardando alle sue origini, nella città di Gerusalemme, la Chiesa si riconosce nella sua vera identità: amore.

La Pentecoste ebraica originariamente era la festa agricola della mietitura. I Padri della Chiesa hanno visto anche in questo come una profezia di ciò che accade nella Pentecoste cristiana. La discesa dello Spirito è il momento nel quale viene raccolto ciò che Gesù ha seminato nell’evento pasquale. Gesù è morto come chicco di grano, secondo la più bella delle sue parabole (cf. Gv 12,24). Ecco ora la spiga matura: la moltitudine di genti che lo Spirito miete a Pentecoste e raccoglie nella nuova comunità.

Quel giorno infatti, attorno agli apostoli, si radunano “giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo” (Atti 2, 5). Quel giorno è stata ricostituita l’unità del genere umano: ciascuno capiva nella propria lingua (cf. 2, 6). Tutte le nazioni erano presenti e tutte ritrovavano, nell’unità della comprensione reciproca, la loro più profonda comunione. Con la Pentecoste a Gerusalemme Dio opera l’unità del genere umano diviso dal peccato. I Padri vi vedono la contrapposizione di quanto avvenne a Babele, quando l’orgoglio originò la frantumazioni dei popoli. Le molte lingue sanno dialogare tra loro, comporsi in armonia: si intendono. Secondo l’adagio patristico: “Ciò che Babele ha disperso, Gerusalemme l’ha riunito”.

 

La prima comunità cristiana di Gerusalemme mostra già la prima nota della Chiesa, l’unità. Gerusalemme dice la vocazione all’unità dell’umanità intera. Siamo tutti figli e figlie di Dio, fratelli e sorelle, chiamati a vivere nella stessa casa, un’unica famiglia.

 

2. Il cammino nella storia: Gerusalemme punto di fuga

Punto di convergenza di tutte le nazioni nell’unità dell’unica famiglia umana, Gerusalemme, nella visione della Chiesa, è anche il punto di fuga verso tutte le genti. Il fuoco della Pentecoste immette un dinamismo centrifugo nella comunità cristiana, che si caratterizza da subito come “cattolica”, ossia capace di penetrare ogni cultura, ogni popolo, ogni nazione, rispettandole nelle loro molteplicità e diversità.

 

Gesù stesso aveva tracciato le coordinate geografiche della missione della Chiesa: “Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi – afferma rivolgendosi ai suoi apostoli – e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (Atti 1, 8). Il punto di partenza è Gerusalemme, il punto di arrivo i confini della terra. La Chiesa non ha più davanti a sé Gerusalemme e i popoli non si dirigono più verso di essa. La Chiesa ha ora davanti a sé i popoli e ad essi si dirige. Gerusalemme rimane alle spalle come centro pulsante e propulsore. Il fuoco della Pentecoste è un’esplosione che sprigiona un’energia irradiante, che segna l’inizio di una storia gloriosa e drammatica che la Chiesa vive da duemila anni.

 

Gloriosa, perché la Chiesa ha saputo informare dell’Evangelo i più diversi popoli e culture. Ha parlato prima l’ebraico, il siriaco, poi il greco, il latino, il copto, l’arabo, poi le lingue slave, germaniche e su su, incontrando sempre nuove nazioni, esprimendo il proprio credo e la propria vita nei modi più diversi e creando i riti più diversi.

Drammatica, perché l’allontanamento, temporale e geografico, da Gerusalemme spesso è stato vissuto come allontanamento dall’unità e dalla purezza evangelica che caratterizzava le origini cristiane.

 

Ecco allora che nella storia della Chiesa più si accelera la fuga in avanti, più si avverte il bisogno di ancorarsi alle origini in modo che esse possano continuare ad alimentare ogni sviluppo successivo. Un grido si leva a intervalli regolari: “Riforma!”. Ri-forma, ossia ritorno e recupero della forma della primitiva comunità di Gerusalemme: Ecclesiae primitivae forma, nella consapevolezza che la Chiesa è sempre bisognosa di riforma: Ecclesia semper reformanda. Ritorno inteso non in senso nostalgico o archeologico, ma come un confronto con il messaggio cristiano nella sua più pura enunciazione e come un attingere alle sue sorgenti per una attualizzazione nel proprio tempo.

 

3. La tensione escatologica: Gerusalemme, la città nuova

Nella prospettiva cristiana accanto ad una Gerusalemme che determina le origini della Chiesa e che l’accompagna nel cammino storico, c’è anche una Gerusalemme futura, che indica la meta del suo pellegrinaggio. La meta ultima è, infatti, metastorica, si realizzerà soltanto quando appariranno i cieli nuovi e la terra nuova. È il tema della città futura, così ben espresso nella cosiddetta lettera agli Ebrei: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (13, 14).

 

Gerusalemme diventa segno profetico di un’altra città non più costruita con pietre, di una nuova Gerusalemme, celeste, di cui si dice:

Ecco la tenda di Dio con gli uomini!

Egli abiterà con loro

ed essi saranno suoi popoli

ed egli sarà il Dio con loro” (Ap 21, 3).

 

Questa seconda Gerusalemme invera la prima, che nel tempio aveva il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Ora la presenza di Dio è talmente forte e intensa che la città non ha più bisogno di un segno. La presenza di Dio è talmente forte e intensa da essere nuovamente capace di attirare all’unità tutti i popoli della terra:

Le nazioni cammineranno alla sua luce,

e i re della terra a lei porteranno il loro splendore.

Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno,

poiché non vi sarà più notte” (Ap 21,24-25).

 

La Chiesa, davanti a questa visione escatologica, ritrova la sua vera natura. Ogni struttura, che pure le è necessaria per il suo cammino storico, appare strumentale e relativa, pronta a cedere il posto alla verità tutta intera del suo mistero: essere tempio di Dio, tempio vivente del Dio vivente (cf. 2 Cor 6, 16ss; 1 Pt 2, 4).

 

L’attuazione

 

Questa visione di Gerusalemme ci interpella. Il disegno di Dio, che attraverso di essa ci viene manifestato, domanda di essere attuato. La proposta che offro segue i tre momenti della riflessione fin qui svolta.

 

1. L’unità, il nostro punto di partenza

Se per noi Gerusalemme è sinonimo di intesa e di fraternità tra popoli diversi, fusi dall’amore di Dio riversato nei cuori, al punto da far di tutti un cuore solo e un’anima sola, l’unità per noi è un imperativo divino.

Era stata l’ultima ardente preghiera di Gesù al Padre: “Che tutti siano uno” (Gv 17, 21), rivelazione dell’anelito profondo di Dio. Sì, perché anche Dio ha un sogno, un desiderio. Lui che è Padre vuol vedere i suoi figli e le sue figlie uniti nell’unica famiglia umana. È per questo che ci ha creati, perché fossimo in comunione con lui e tra di noi.

Gerusalemme è lì ad indicarci la via.

 

Si inizia con il riconoscere l’altro, chiunque esso sia, come fratello, sorella. Allora erano “Parti, Medi, Elamìti, abitanti della Mesopotàmia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi” (Atti 2, 9-11). Ora abbiamo accanto a noi quegli stessi popoli, con in più quanti emigrano dell’Oriente, dall’Africa… Come allora occorre arrivare non a parlare la stessa lingua – che ognuno rimanga con la sua, allora come oggi – ma ad intendersi in quella lingua comune che è l’amore. Gerusalemme ci domanda di vivere per la fratellanza universale, per l’unità.

 

2. La cattolicità: il nostro cammino quotidiano

Accanto all’ansia d’unità si avvertono oggi tendenze in senso contrario, che si manifestano in ricerca dell’autonomia e della libertà. Questo ha condotto a fenomeni di violenza, di guerra, di terrorismo… Paradossalmente, la domanda di autonomia e il fenomeno della disgregazione mostrano uguale vigore antitetico rispetto alla ricerca della comunione e dell’unità.

Le spinte autonomistiche hanno origine dal fatto che spesso l’unità è stata sperimentata nella forma distorta del totalitarismo e della sopraffazione, così come l’indipendenza è stata intesa come assolutizzazione del particolare ed esclusione della diversità. Oggi è richiesta un’identità che non si chiuda nell’individualismo egoistico, ma si apra alla comunione con le altre realtà sociali culturali e politiche.

 

Ed ecco davanti a noi nuovamente Gerusalemme, vista questa volta come punto di partenza verso i popoli, inizio della “cattolicità” della Chiesa, capace, per usare un linguaggio paolino, di farsi “servo di tutti”, “Giudeo per i Giudei…, con coloro che non hanno Legge… come uno che è senza Legge… debole con i deboli… tutto per tutti” (1 Cor 9, 19-23).

Questo modo di amare, valido nei rapporti interpersonali, siamo chiamati a dilatarlo nei rapporti con gli altri popoli, con le altre culture. Occorre arrivare a comprenderne i comportamenti, anche quando non li condividiamo, le esigenze, anche quando ci sembrano eccessive.

 

3. La profezia: il Santo in mezzo a noi

Siamo infine alla terza dimensione di Gerusalemme, quella escatologica, che Dio costruirà alla fine dei tempi, che solo lui conosce. Ma noi siamo chiamati ad esserne la profezia.

Noi cristiani ci sentiamo chiamati ad essere pietre vive che già da ora costituiscono un tempio vivo, ad essere un luogo santo nel quale ci sia il Santo: che il Santo abiti in mezzo a noi.

 

Gesù ce ne ha indicata la via quando accanto al primo comandamento dell’amore di Dio e al secondo dell’amore del prossimo, ha collocato il terzo comandamento, quello dell’amore reciproco che presuppone i due e li invera. È così che si crea la città nuova, la nuova Gerusalemme nella quale viene ad abitare il Santo.

A nostra volta saremo da lui contenuti e lui ci avvolgerà tutti e ci comporrà in unità, senza mortificare le differenze, ma esaltandole in armonia e in concordia piena.

 

È un cammino, questo, che crediamo non sia esclusivo dei cristiani. Ogni uomo e donna di buona volontà possono concorrere alla costruzione di una Gerusalemme celeste, basta appunto la “buona volontà”, la decisione di non guardare a sé, ma all’altro, di posporre le proprie esigenze per accogliere quelle dell’altro. Ma soprattutto occorre l’esplicita dichiarazione, fatta insieme, di amarci sempre l’un l’altro, costi quello che costi.

 

La nuova Gerusalemme rimarrà sempre un dono di Dio, che lui farà scendere dall’alto (valgono anche per noi le parole rivolte dal profeta Natan al re David: Non sarai tu a costruire una casa al Signore, ma lui a te!). Ma Dio si è impegnato con una promessa ad essere presente in mezzo a quanti sono uniti nel suo santo Nome (cf. Mt 18, 20), e lui è fedele alle promesse. La Gerusalemme futura potrà quindi essere presente, in germe, fin da ora: sarà Dio fra noi, decisi ad amarci l’un l’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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