Gerardo Bianco e l’identità democristiana

Scompare uno dei protagonisti della scissione del partito popolare che portò alla nascita dell’Ulivo ma non accettò la fusione fredda nel Pd. L’istanza di una cultura cattolico democratica originale da mantenere viva nell’età del bipolarismo
Gerando Bianco con Mattarella Foto Ufficio Stampa Quirinale/Paolo Giandotti

«La maggior parte dei giornalisti e scrittori non sa cosa veramente è stata la democrazia cristiana. E mi permetto di dire che nel discorso del presidente Mattarella, quando lui usa il termine “dignità”, ripetendolo una decina di volte, là dentro c’è tutta la cultura del personalismo cristiano, c’è dentro Maritain, e quella è una grande eredità, l’importante non è morire democristiani ma preservare la cultura dei cattolici democratici». Nell’ultima bella intervista rilasciata da Gerardo Bianco a Il Giornale nel febbraio 2022 si coglie lo spessore dell’esponente politico scomparso il primo dicembre alla veneranda età di 91 anni (era nato nel 1931).

Ha fatto parte di una generazione appartenente all’area della cosiddetta sinistra Dc che in Irpinia, in paesini sconosciuti dalla ribalta nazionale, ha avuto una particolare fioritura grazie all’esempio di una figura emblematica e sconosciuta, il ministro Fiorentino Sullo che andrebbe ricordato per la proposta di una legge urbanistica, fortemente osteggiata e poi rimossa, che avrebbe salvato il Belpaese dalla cementificazione selvaggia.

Su Gerardo Bianco sono unanimi i riconoscimenti dell’onestà e del tratto gentile di una persona segnata da una solida formazione di letterato e latinista molto legata alla tradizione del pensiero meridionalista, come testimonia il fatto di aver ricoperto per un lungo periodo la carica di presidente dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, fondata nel 1910, succedendo, per avere un’idea, a personaggi come Benedetto Croce e Giustino Fortunato.

Qualcuno lo ha chiamato, benché sia stato anche ministro dell’Istruzione e in Parlamento per 40 anni, un esponente dei peones, termine usato nella Prima Repubblica per definire la massa dei parlamentari gregari dei capi conosciuti come “cavalli di razza” o, più prosaicamente, come “signori delle tessere”, ma, come Bianco ha avuto modo di dire nell’intervista citata, «la storia della democrazia cristiana non si scrive sulla storia dei grandi leader, ma la si scrive sulla storia dei cosiddetti uomini della seconda o terza linea che erano leader locali che avevano anche una dimensione nazionale».

Foto LaPresse Torino/Archivio storico

Di quella storia Gerardo Bianco ha ricoperto un ruolo decisivo al momento della dissoluzione del partito avvenuta dopo il fallimento del tentativo riformista di Mino Martinazzoli nel 1992 di mantenere un soggetto popolare alternativo al bipolarismo ormai imperante tra destra e sinistra.

Il momento della rottura avvenne con la scelta del neosegretario del Partito popolare, il filosofo Rocco Buttiglione, di schierarsi con il centrodestra vincente di Berlusconi, non condivisa da una parte maggioritaria degli iscritti guidati proprio da Bianco che prese il posto di segretario e poi presidente del partito dal 1995 al 1999.

Chi ha vissuto quegli anni ricorda una forte contesa che prevedeva anche lo scontro fisico e l’occupazione delle sezioni come delle sedi centrali fino ad arrivare davanti ai tribunali per decidere la proprietà dello storico simbolo dello scudo crociato, assegnato poi alla Cdu, la fazione di Buttiglione.

Nelle ultime elezioni quel vessillo, che simboleggiava la resistenza dei comuni medioevali contro l’imperatore, lo abbiamo visto ancora esposto nel mosaico di sigle della lista centrista a sostegno della Meloni che non ha raggiunto l’1% dei voti. Segno che quello Scudo con la scritta Libertas, forse, andrebbe consegnato ad una fondazione, tipo l’Istituto Sturzo, in grado di custodirne il significato.

Foto LaPresse Torino/Archivio

I popolari di Bianco usarono come simbolo un antico stendardo per diventare poi una componente decisiva nella formazione dell’Ulivo e nella vittoria nel 1996 di Romano Prodi, anch’egli esponente “tecnico” della sinistra Dc.

Quella stagione è poi passata rapidamente ad una sorta di “fusione fredda”, cioè senza una fase adeguata di confronto e condivisione, nel Partito democratico dopo la breve esperienza della Margherita, contenitore inventato da Francesco Rutelli che teneva assieme popolari e altre componenti diverse dagli ex Pci.

Bianco non ha mai condiviso questo percorso, cercando di mantenere una linea originale fondando prima un’associazione con l’ex presidente dell’Azione cattolica, lo storico Alberto Monticone, e poi aderendo alla proposta politica centrista avanzata da Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl. Tentativi naufragati nel predominante sistema bipolare che, nel frattempo, ha mostrato delle crepe evidenti con l’irruzione dell’anomalia pentastellata come movimento maggioritario che si è definito originariamente estraneo alle categorie di destra e di sinistra, salvo poi contrarsi di numero e mutare pelle.

A Gerardo Bianco si deve, perciò, la testimonianza coerente di un cattolicesimo democratico in grado di ispirare un progetto politico plurale senza restare però subalterno ad altre visioni culturali. Un messaggio che dovrebbe interessare il dibattito travagliato del partito democratico che si trova a vivere una fase decisiva per la propria stessa esistenza.

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