Georgia il destino del dialogo
Un crocevia, di quelli che tanto piacciono agli esperti di geopolitica. Luoghi che bisogna visitare per conoscerli. Ho trovato una nazione ricca di una natura straordinaria, in crescita economica seppur poverissima, incastonata in un concentrato di etnie, religioni e civiltà. La Georgia, i suoi luoghi e le sue persone. Una nazione in dialogo. Mtskheta, il passato lontano Mtskheta: città santa dei georgiani, sito con insediamenti umani presenti sin dal terzo millennio prima di Cristo, è il simbolo della patria. Pompeo la saccheggiò nel 65 a.C., e qui, nel IV secolo, arrivò il cristianesimo, grazie alla predicazione di una giovane della Cappadocia, santa Nino. Convertì la famiglia reale, nel cui giardino venne costruita la prima chiesa della Georgia, chiamata Iberia, in legno. Qui, oggi si erge invece la cattedrale Sveti-Tskhoveli, al confluire dei fiumi Mtkvari e Aragvi, nel luogo dove si dice che fu sepolta la tunica di Cristo. L’attuale chiesa in pietra, dove sono sepolti i regnanti, risale al 1010. Qui si respira la storia travagliata di un popolo che ha saputo conservare la propria integrità nazionale grazie alla fede cristiana, sopravvissuta agli ottomani e ai comunisti. Si respira quindi nazionalismo (la bandiera sventola orgogliosa), fede (le migliaia di ceri bruciati ogni giorno) e voglia di rinascere (i restauri che stanno ridando splendore al sito). La Georgia è cristiana e ortodossa; la sua chiesa è guidata dal patriarca Ilia II. Lo incontro nel palazzo patriarcale, confiscato dal regime comunista ed ora di nuovo splendente di icone e di specchi. Il patriarca ci tiene a dire che la sua chiesa autocefala è una delle più antiche, fondata come fu dall’apostolo Andrea. E rivendica per la sua confessione la più forte resistenza ai comunisti. 35 sono le diocesi, centinaia le scuole e le opere caritative. C’è orgoglio nazionale e cristiano nelle sue parole, testimoniato dalla sua difesa ad oltranza dell’integrità territoriale georgiana. Avendo io notato come non tutto fili liscio nei rapporti ecumenici – ad esempio un cattolico per sposare un’ortodossa deve oggi ribattezzarsi -, il patriarca risponde: I rapporti con Roma sono molto buoni, e non esistono problemi maggiori, come quelli dell’uniatismo. Rivendica d’altronde ottimi legami col vescovo cattolico e con gli ebrei presenti nel paese. E non dimentica i musulmani e gli armeni ortodossi: Nel disastroso terremoto di una decina d’anni fa, siamo stati i primi a inviare aiuti nella zona. L’ultimo brindisi – l’ultimo di una lunga serie, una tradizione georgiana – viene dedicato alla nuovissima e grande chiesa della Santa Trinità in costruzione nel centro della capitale, in posizione baricentrica, visibile da ogni punto della città. Anche questo è un segno di una chiesa che mantiene una grande influenza sulla società. Rustavi, il passato vicino La città si annuncia all’orizzonte con qualche pennacchio di ciminiera e con una selva di tralicci, pali e impalcature che sembrano voler ridurre la linea dell’orizzonte quasi per ingabbiarla. Il mostro della civiltà industriale sovietica si annuncia apocalittico, un incubo di ferraglia. La città si rivela una lunga e larga strada in direzione della capitale, attorniata da palazzi tutti simili nella loro decadenza: non uno solo appare in ristrutturazione. Un filobus in panne è stato abbandonato nel centro della strada, forse una settimana fa, o un mese, chissà, forse anche qualche anno. Sfrecciano Zigulì e Trabant alla velocità della deambulazione animale, mentre di tanto in tanto Mercedes o Bmw nuove di zecca annunciano il trionfo del capitalismo rampante. Una lunga conversazione con l’ambasciatore italiano in Georgia, Fabrizio Romano, mi aiuta a capire questo paese contradditorio, ricco di tradizione e nel contempo attanagliato da una grande povertà. Da 14 mesi il paese in effetti è sotto i riflet- tori internazionali, con quattro elezioni, la fine della presidenza di Eduard Shevardnadze e l’ascesa folgorante di Mikheil Saakashvili. L’attuale presidente è uomo d’azione, che sta riuscendo in un’impresa mai riuscita: far pagare le tasse ai georgiani. E questo fa sperare in una ricostruzione dello stato. L’interesse internazionale per la Georgia è evidente, come hanno dimostrato le visite di Powell, segretario di stato Usa, e di Ivanov, ministro degli esteri russo, in occasione dell’elezione del trentasettenne nuovo presidente. Anche l’Italia è assai attiva, grazie alle visite di Frattini e Dini, oltre che di Prodi. A fine anno avrà luogo, per iniziativa della ambasciata, un forum georgiano-italiano, il primo organizzato da un paese Ue. I tralicci di Rustavi dicono decadenza. Ma più in basso di così l’economia non potrebbe scendere: ora tocca risalire la china, e il paese sembra attrezzato per riuscirvi, a condizione che i paesi più ricchi non rifiutino di dargli una mano. Tbilisi, il presente Visito la capitale, accompagnato da alcuni amici giornalisti. La sede dell’agenzia di stampa di uno di loro si trova proprio nella via del palazzo presidenziale. Per accedere alla piccola redazione si sale una scala di legno traballante in un edificio che potrebbe avere un certo cachet da fin de siècle, ma ora in stato pietoso. Qui è normalità; me ne accorgo ben presto, quando getto un’occhiata all’interno delle abitazioni, che quasi sempre possiedono cortili ornati di incantevoli ballatoi di legno. Ma, ahimè, sono tutti, o quasi, cadenti. Coi soldi, la città diventerebbe splendente. Tbilisi è una città che va percorsa a piedi per apprezzarne appieno le potenzialità e la memoria. A piedi si possono ad esempio scoprire le chiese georgiane, quasi senza soluzione di continuità con l’abitato e coi suoi grovigli di fili elettrici, rampicanti, brandelli di ricoperture lignee, pensieri. Anche i pensieri della gente di Tbilisi appaiono un po’ aggrovigliati, o piuttosto timidi; ma ci vorrà poco a sbrogliarli, a restaurarli verrebbe da dire. Non si esce indenni da decenni di dittatura. Ma bisogna lasciar loro il tempo di riprendersi. E i risultati li si vedono già, come in un quartiere appena ristrutturato, una sorta di via degli artisti deliziosa, appena oltre il celebre museo del caravanserraglio, il Karvasla, e la cattedrale Sionis. Saliamo poi sulle alture, fino alla gigantesca antenna per le telecomunicazioni dalla quale si gode una vista imprendibile sull’intera città. Una gran quantità di militari in grigioverde deambulano senza sapere bene cosa fare. L’esercito è uno dei problemi della Georgia, soprattutto nei periodi di tensioni etniche. Scendendo, non sono pochi i palazzoni e gli alberghi che mi dicono ospitare rifugiati georgiani fuggiti dai conflitti dell’Abcazia e dell’Ossezia. Ne parlo con Mikheil Saakashvili, il presidente, che mi concede qualche minuto: Sono orgoglioso della nostra Georgia – mi dice -, perché in questo momento vuole essere un esempio di pacificazione e di libertà religiosa e anche etnica . Quindi spende qualche parola per l’Ossezia del sud, che ha dato non pochi problemi quest’estate, per colpa dei contrabbandieri, sostiene. E aggiunge: Il parlamento non vuole la guerra, anche se afferma l’integrità della Georgia. Perché essa è terra madre per tutti. Spesso il mio paese ha sparso il sangue dei suoi abitanti, in primo luogo per i conflitti interetnici, ma anche politici, e religiosi. Il terrorismo non è un problema religioso. Non una parola per il Caucaso settentrionale che, pur essendo vicinissimo, tutti cercano anche psicologicamente di tenere lontano. Freedom Square, il futuro vicino Ancora Tbilisi, al Palazzo del governatore, oggi chiamato invece dei bambini. Una sorpresa: dopo aver percorso una serie di sale, scale e corridoi vuoti – decorosi e decadenti, come l’aristocrazia premarxista che aveva animato questi locali e come il massimalismo massificatore del socialismo reale -, vengo introdotto in una grande sala tutta specchi. Assisto ad uno spettacolo di alto livello, offerto da gruppi di bambini e ragazzi d’ambo i sessi, virtuosi e sorridenti, direi decisamente ottimisti. Mi dico che si tratta delle stesse rappresentazioni di cinquanta, cento o duecento anni fa: ciò spiega perché i georgiani abbiano conservato un forte amore per le tradizioni nazionali, oltre i secoli e i regimi. Ma c’è pure nostalgia struggente in queste note e in queste coreografie: ritrovo nelle melodie che salgono e che scendono, spesso interrompendosi brutalmente per poi riprendere d’improvviso, le grandi intuizioni musicali di Giya Kancheli, il più famoso musicista georgiano che, in volontario esilio negli Stati Uniti, continua a riprodurre nelle sue musiche l’anima della sua terra benedetta e incompiuta. Nell’occasione incontro il direttore dell’unico gruppo mediatico di opposizione, Malxaz Gulashvili. Mi esprime dubbi sulla tenuta dell’attuale democrazia che, nelle ultime elezioni ha manifestato tendenze bulgare, eleggendo Saakashvili con il 78 per cento dei voti. Secondo lui, i discorsi ecumenici del presidente nascondono un forte nazionalismo, che prima o poi provocherà ulteriori scontri in Ossezia e in Abcazia. Opinione diametralmente opposta è invece quella di Guguli Maghradze, professoressa all’università di Tbilisi e deputato per il partito del presidente: per lei, Saakashvili è riuscito a togliere la politica ai vecchi tromboni distanti dal popolo, eredità del regime comunista, per avvicinare alla cosa pubblica la gente comune. All’uscita dal concerto, nella piazza dedicata alla libertà, ecco un festoso carosello, nel quale s’inseriscono le nuove auto della polizia georgiana, con appariscenti luminescenze rosse e blu. Sventolano bandiere crociate, il nuovo vessillo della Georgia, perché si festeggia la vittoria della Dinamo Tbilisi contro una squadra polacca. Il football farà l’unità dell’Europa, forse. Il futuro lontano, Davit Gareja Uno dei problemi che più sta a cuore ai georgiani è in effetti quello del rapporto con l’Unione europea. Taluni auspicano un avvicinamento del paese all’Ue, o addirittura l’entrata, assieme all’Armenia e all’Azerbaijan, nel suo seno. La questione è controversa. Tuttavia tutti, indistintamente, auspicano che la Georgia si installi nel girone di influenza Ue, per contrastare la prepotenza russa e quella di certi paesi musulmani. Salomè Zourabichvili, ministro degli Esteri, me lo conferma: Un paese rimasto isolato per due secoli accoglie ora la globalizzazione come una possibilità di sviluppo. I nostri valori sono adatti ad una maggior vicinanza tra i popoli. La Georgia non può essere solo un ponte di pietre e cemento, ma un ponte attivo con l’Europa. Ripenso a tutto ciò nella visita a Davit Gareja, un complesso di monasteri ortodossi al confine con l’Azerbaijan e con l’Armenia. Perché qui passava il confine orientale della cristianità: una serie di caverne affrescate nelle quali abitavano monaci che furono scacciati dagli ottomani e poi dai comunisti. Ora sono tornati, caparbi e ricchi di una fede granitica. Ma la Georgia guarda lontano, oltre queste colline e oltre il Caucaso che s’intravede con le sue cime innevate, verso la Cecenia. Guarda lontano, ma deve guardare anche vicino, alle sue impossibili strade, ai suoi pensionati da 20 dollari al mese, alle scarpe sfondate dei suoi bambini… Il viaggio di ritorno nella capitale (quattro ore d’auto per ottanta chilometri) mi dice quanto siano grandi gli orizzonti della Georgia ma quanto lavoro ci sia da fare per avvicinarvisi. Ci riuscirà, penso. Lo costato nel corso di un convegno organizzato dallo stato, dalla chiesa e da varie università sul dialogo tra civiltà: si vola alto, e nel contempo si resta coi piedi ben piantati nella piccola Georgia. Il patriarca Ilia II ne è certo: Riusciremo a diventare un paese tranquillo e prospero, perché siamo esperti in dialogo: quello che ha aiutato la Georgia a sopravvivere nei momenti più tragici della sua storia. La rappresentante dell’Unesco, la russa Liubova Moreva, conferma tale impressione, invitando all’inclusione e non all’uniformità, perché è il dialogo, e solo esso, che può portare alla sicurezza nazionale e internazionale. Mons. Giuseppe Pasotto, stimmatino, da dieci anni nella regione, e da quattro vescovo dell’unica diocesi georgiana, cura 50 mila cattolici e diciassette sacerdoti. Anch’egli è fiducioso: La forte tradizione cristiana del paese mi sembra che si esprima nell’attesa quasi ansiosa di pace, di serenità, di unità dei cuori e delle etnie . Nella cattedrale – una costruzione del 1890, poi occupata dai comunisti, lasciata all’abbandono e riaperta solo nel 1998, pulita e semplice, ornata da un’ottantina di bellissime icone realizzate da due giovani artisti ortodossi -, mi indica il suo motto episcopale: ut unum sint. La Georgia ce la farà CAUCASO DEL SUD Seppur assai meno pericoloso del versante settentrionale, il Caucaso meridionale è tuttavia una zona strategica con tre o quattro focolai di guerra tuttora esplosivi. C’è l’Ossezia del sud, contesa tra georgiani e osseti; c’è l’Abcazia, che i locali contendono al potere di Tbilisi; c’è pure il Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma in territorio azero, e c’è il piccolo territorio azero separato dalla madre patria, la provincia di Naxçivan. Ci sono musulmani – gli azeri – e ci sono cristiani, ortodossi in massima parte, ma anche ebrei e buddhisti. Di lingue già Strabone, geografo greco del I secolo a.C., ne aveva contate 25. Che sia pure una zona strategica dal punto di vista della geopolitica, non c’è nessun dubbio. Basti pensare alla circolazione del petrolio del Mar Caspio, che avviene grazie a due oleodotti, uno che collega Baku alla Turchia, via Tbilisi. L’altro, invece, sale direttamente dal territorio azero fino alla Russia, attraversando il Caucaso nel pericoloso territorio della Cecenia e Inguscezia. MESI TURBOLENTI Negli ultimi due anni, la Georgia è rimasta sotto i riflettori della cronaca internazionale per alcune gravi difficoltà interne: la parabola dell’ex ministro degli esteri della perestroika gorbacioviana, Eduard Shevardnadze, si è conclusa nella polvere, perché il presidente del post-comunismo ha dovuto passare la mano al suo pupillo di una volta, Mikheil Saakashvili, un giovanottone intraprendente e spavaldo, che parla perfettamente cinque lingue, sposato a una giovane donna olandese, e che ha messo ai posti chiave del suo governo una donna di origini francesi, ex-ambasciatore di Parigi in Georgia (agli Esteri), e un professore russo (al Tesoro). Fortunatamente, Shevardnadze ha avuto il buon senso di ritirarsi dalla scena politica prima che fosse troppo tardi, evitando così inutili spargimenti di sangue. In cambio ha ottenuto l’immunità.