Gente di Terrasanta
Mi trovavo a Gerusalemme nei giorni scorsi e mentre camminavo per le strade del centro mi ha colpito il numero di donne incinte, sia ebree che arabe, che incontravo. Di fronte a questo bellissimo spettacolo di vita, ad un certo punto ho avuto la sensazione di capire cosa ci potrebbe essere sotto la retorica della recente legge del 18 luglio 2018, quella che sancisce che Israele è lo “Stato-nazione del popolo ebraico”, relegando così formalmente il 20% dei cittadini (i non-ebrei) a popolazione di serie B, anche se di fatto lo erano già da tempo. Una legge che, insieme a molte altre ragioni, mette allo scoperto la paura demografica. Detto in parole povere: il numero degli abitanti non ebrei del Paese (comprendendo oltre ai cittadini arabi anche i residenti senza cittadinanza e i profughi palestinesi) starebbe eguagliando quello degli ebrei (circa 6,5 milioni). Il rischio di ritrovarsi fra un decennio con un Paese a maggioranza non ebraica fa paura in certi ambienti.
L’immigrazione ebraica (aliyah) dà una mano ad allontanare, ma sempre meno, la paura del sorpasso demografico. Quindi, dal punto di vista del governo israeliano, “contrastare” i non ebrei, soprattutto musulmani, è necessario. E lo fa riducendo i loro diritti, creando problemi, favorendo gli insediamenti ebraici, costruendo muri, di fatto demolendo la risoluzione 194 dell’Onu sul diritto al ritorno, ecc. Nonostante tutto ciò e ben altro, e pur tra problemi e tensioni enormi, ho però avuto la netta sensazione che Israele e perfino i Territori palestinesi siano comunque Paesi giovani, dinamici, e non soltanto sotto il profilo demografico.
Mi trovavo a Gerusalemme anche quando i giornali hanno commentato la decisione del presidente statunitense Trump di chiudere i rubinetti dei finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia speciale dell’Onu che da 70 anni sostiene i palestinesi nei Territori dell’Autorità Nazionale Palestinese (Cisgiordania), a Gaza, in Giordania, Libano e Siria. La notizia è rimbalzata ovunque facendo storcere la bocca a molti, soprattutto in Europa e nel mondo arabo, anche perché il premier israeliano ha subito accolto la notizia molto positivamente (ma non così il ministero degli Esteri e l’Esercito israeliani). Mi sono reso conto parlandone con alcune persone, ebrei, musulmani e cristiani, che la cosa ha valenze e significati poco conosciuti rispetto a quelli che si possono cogliere tramite l’informazione di massa disponibile in Italia o in Europa.
Perché pochi sono a conoscenza di come opera l’Unrwa, complici in certo modo anche le politiche dei Paesi donatori, e fra essi l’Italia. Se da un lato gli aiuti dell’Unrwa sono indispensabili per dare ai palestinesi un minimo di infrastrutture, soprattutto sanitarie e scolastiche, per un altro verso si sono verificate in questi anni alcune pesanti criticità nella gestione dell’agenzia Onu, che la stessa Unrwa ammette, rimandando la soluzione ai colloqui di pace fra le parti, com’è noto da tempo arenati. In estrema sintesi, i problemi più eclatanti sono due: il primo è il criterio di definizione del concetto di rifugiato Unrwa, che si è andato estendendo anche ai discendenti dei primitivi 600 mila profughi palestinesi del 1949: oggi sarebbero circa 6 milioni gli assistiti dell’Unrwa (in 59 strutture definite campi ma che sono in effetti delle città).
Con questi criteri, la crescita assistenziale rischia di diventare esponenziale e soprattutto ingestibile. Il secondo problema eclatante è il bilancio dell’Unrwa: gli oltre 650 milioni di dollari raccolti ogni anno (Usa, Ue, Arabia) vanno in notevole misura (65%) a coprire gli stipendi dei dipendenti, tra i quali ben 29 mila sono palestinesi.
Con queste criticità non affrontate è difficile immaginare che il cosiddetto piano di pace statunitense promosso da Kushner (genero di Trump) e Greenblatt possa trovare accoglienza fra i palestinesi, perché ritenuto troppo sbilanciato a favore di Israele. Allo stesso tempo, però, a Gaza sembra decollare un accordo tra Hamas e Israele mediato dall’Egitto, qualcosa si prospetta anche da parte statunitense-israeliana per la creazione di un polo industriale ad Hebron (Cisgiordania) che potrebbe dare lavoro a forse 20 mila palestinesi. Si muove qualcosa davvero? C’è solo da sperare che ciascuna delle parti trovi l’immane coraggio necessario per aprire uno spiraglio, anche piccolissimo, verso un spazio di bene comune che non schiacci le differenze. La Terrasanta lo meriterebbe.