Genova ribelle alla guerra, società civile e chiesa con i portuali

La guerra e la pace passano nei porti. Da quello di Genova, dove i portuali del Calp rifiutano di caricare armi destinate ai Paesi in guerra, parte un’iniziativa comune per chiedere l’applicazione della legge 185 del 90, con il sostegno dei vescovi di Genova e Savona. Un segno dei tempi alle ore 15.00 di sabato 2 aprile
Guerra

La guerra passa dal porto di Genova. In pochi se ne accorgono, ma non sono distratti i portuali riuniti nel collettivo Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) che da almeno 4 anni cercano di fermare quel perfetto ingranaggio che permette l’arrivo di armi in Arabia Saudita, Paese a capo di una coalizione militare impegnata dal 2015 nel cruento conflitto in Yemen.

Secondo i sondaggi, per quello che possono valere, la maggioranza degli italiani sarebbe contro l’impegno, preso in sede Nato, di aumentare la percentuale di spesa militare del nostro Paese e che il governo Draghi vuole onorare senza indugi. Spesa pubblica e produzione industriale per la “Difesa”, poi, vanno a braccetto e, come spiegano gli esperti dell’IAI, è impensabile poter limitare la vendita di tali beni nel perimetro continentale. Si spiega in tal modo il fatto che tra i principali destinatari delle armi italiane troviamo l’Egitto di Al Sisi che compra le fregate Fremm che la filiale Usa di Fincantieri vende agli Usa.

Sono rare le persone che si dichiarano a favore della guerra eppure restano in pochi coloro che si mettono davvero in gioco come i lavoratori che, alle 6 di mattina di giovedì 31 marzo, si son dati appuntamento sul ponte Etiopia del porto di Genova dove attraccano le navi che arrivano da oltre oceano dirette nel Golfo Persico. Nell’area, cioè, dove si trovano i maggiori acquirenti del sistema mondiale degli armamenti.

Si è, infatti, chiuso da poco, a Riad, il World Defence Show, il più grande evento di expo delle armi che si è tenuto dal 6 al 9 marzo, nel pieno del disastro della guerra in Ucraina, con la partecipazione dei vertici delle nostre industrie del settore, in primis Leonardo ex Finmeccanica, società sotto controllo pubblico.

Fermare l’ingranaggio del comparto militar industriale è un’impresa che sembra impossibile vincere per l’evidente sproporzione delle forze in campo. Su chi si ribella al sistema incombe, poi, l’accusa di frenare l’economia e quindi il benessere collettivo in nome di astratti valori etici. «Se noi non vendiamo le armi, qualcuno lo farà al posto nostro» è la tesi ripetuta anche in alti consessi.

Al lavoratore, infatti, è sottratta la possibilità di decidere “cosa, come e per chi produrre”.  Una sofferenza interiore che il giovane Karol Woytila ha saputo ben esprimere in una poesia che descrive il tormento di un operaio di una fabbrica di armi al quale è chiesto di tornire minuscole vite “senza abbracciare il senso di tutto” e abbracciare il mondo.

Ma non è stato sempre così. In Italia negli anni ‘70 e ’80 donne e uomini del lavoro hanno reso possibile che si arrivasse ad una legge (la legge 185 del 90) che vieta di vendere armi ai Paesi che negano i diritti umani e/o sono in guerra. Una norma che porta la Costituzione in fabbrica ma che necessita, per essere efficace come previsto dallo stesso testo normativo, di una decisa e politica economica in grado di investire in settori civili moltiplicatori di occupazione e innovazione.

Ed è questa stessa legge, più volte aggirata e violata, che i portuali vogliono far rispettare trovando un’alleanza con i lavoratori di altri porti europei in base a quel legame internazionale che è sempre stato l’unico antidoto contro il virus del nazionalismo che conduce fatalmente alla guerra. La rottura di questa “fraternità del lavoro” ha sempre preceduto, nella storia moderna, la giustificazione all’obbedienza nell’uso delle armi tacitando ogni richiamo alla coscienza.

È, perciò, un grande segno dei tempi il fatto che i portuali ribelli alle armi non siano rimasti soli in questa azione ma che abbiano trovato il sostegno di una parte significativa della società civile. Le associazioni radunate in “Genova aperta alla pace” e anche le diocesi di Genova e Savona, con i vescovi Angelo Tasca e Calogero Marino,che sabato 2 aprile, con la presenza dei rispettivi vescovi , condivideranno una marcia nel porto genovese per chiedere all’autorità portuale di Genova il rispetto della legge 185/90 e cioè che si attivi per chiedere «la rivelazione del carico alle navi che transitano da Genova, e rifiuti l’ingresso in porto alle navi della morte».

Il senso di una marcia non è l’estetica o la sua lunghezza ma l’obiettivo che si pone, che non può essere generico e retorico. Bastano pochi passi come a Genova per chiedere un grande cambio di passo ad un sistema portuale che rappresenta un nodo strategico per l’economia del nostro Paese collocato nel cuore del Mediterraneo.

La città della Lanterna è un luogo decisivo per capire le scelte recenti della nostra economia, come si può leggere nell’intervista di cittanuova.it all’ex presidente di Confindustria Genova, Stefano Zara, uno dei pochi ad apporsi alla scelta politica trasversale di dismettere il patrimonio di società pubbliche all’avanguardia in campo civile per privilegiare, con Finmeccanica Leonardo, la filiera degli armamenti dipendente dagli Usa.

Una ricostruzione che collima con il lavoro di analisi e studio di Gianni Alioti, sindacalista genovese con grande esperienza internazionale e tra i maggiori esperti di riconversione industriale.

Come sempre, dietro ad un “No” espresso verso un certo sistema iniquo c’è sempre una visione tesa alla costruzione di un altro mondo possibile, cioè di un diverso modo di stare al mondo, libero dal ricatto occupazionale che sempre accompagna la produzione bellica, dalla fase di ricerca fino alla logistica.

Per questo motivo nella mattina del 2 aprile Città Nuova propone nel cuore storico della città di Genova un momento di approfondimento sulla Conversione ecologica integrale indicata da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’.

Alla radice dell’azione dei portuali che resistono alla logica della guerra c’è quella stessa pretesa che, al di là delle sigle, fa dire, ad esempio, ai lavoratori della ex Gkn di Firenze di voler essere loro stessi responsabili delle scelte che contano (“noi siamo classe dirigente”).

Un’esigenza che Francesco non può che incoraggiare come ha fatto nei diversi incontri con i movimenti popolari. Lui, figlio di migranti piemontesi passati per quel porto di Genova nel secolo scorso, ha additato nel 2019 di ritorno da Hiroshima, come esempio da seguire, i lavoratori genovesi che si son rifiutati di caricare le armi. Li ha poi incontrati a Roma e appena li ha visti, come riporta Josè Nivoi del Calp in questa intervista video, non c’è stato tempo per le presentazioni: «con queste facce si vede subito chi siete» gli ha detto, con affetto, Francesco.

Altri volti e storie simili da raccontare arrivano dai lavoratori portuali di Ravenna e da quelli dell’aeroporto di Pisa.

L’iniziativa ligure vuole essere solo una tappa di un cammino più ampio. Come dicono i numerosi promotori della marcia, «partiremo da Genova chiedendo a tutte le città portuali del nostro Paese di replicare la mobilitazione accendendo “fari di pace”. Basta armi che transitano dai nostri porti. Nessuna guerra non può alimentarsi della nostra complicità o indifferenza».

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