Genitori ansiosi o . . . troppo disinvolti: attenti!
Già! Un atteggiamento di ansia eccessiva di un genitore nei confronti dei figli, oltre che deleteria per questi, può comportare la decisione del giudice di disporre l’affidamento degli stessi all’altro genitore che ansioso non è. Questo il principio che si ricava da una recente sentenza della suprema Corte di cassazione che, nella causa tra due coniugi, ha disposto l’affidamento del figlio minore (Lorenzo) al padre (F.C.) e non alla madre (E.S.B.), per essersi questa dimostrata troppo preoccupata ed ansiosa per le sorti del minore al punto da arrivare a bloccarne lo sviluppo. È sempre molto difficile e delicato il compito di un giudice quando deve stabilire a chi (tra due genitori che hanno conosciuto l’incresciosa esperienza della separazione o del divorzio) debba essere affidata la prole, in quanto il suo non può essere solo un giudizio tecnico,ma soprattutto umano. Nel nostro caso, peraltro, era risultato abbastanza chiaramente – in esito a svariate consulenze tecniche e ad ulteriori specifici interventi di psicoterapeuti e di psichiatri – che la madre non era proprio il soggetto adatto per ricevere in affidamento il figlio Lorenzo, e ciò innanzitutto, come si diceva, per avergli creato con il suo atteggiamento iperprotettivo al limite dell’ossessivo grossi problemi nello sviluppo e anche perché – come si legge nella sentenza n.ro 559 depositata il 16 gennaio scorso – aveva fatto di tutto per rendere difficoltosi i rapporti di questi con il padre (F.C.) e per frustrare i tentativi riconciliativi di terapeuti e di consulenti. Né è possibile invocare da parte di alcun genitore un preteso “diritto” per così dire “primario” per vedersi affidata la prole dal giudice, magari accampando una presunta incapacità dell’altro genitore a svolgere le sue funzioni educative e formative (come è avvenuto nel caso di Lorenzo); al contrario – si legge nella sentenza – il giudice deve “attenersi al criterio fondamentale dell’esclusivo interesse morale e materiale della prole , che pertanto, compito di detto giudice èindividuare il genitore più idoneo a ridurre i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore, nel contesto di vita più adeguato a soddisfare le sue esigenze materiali, morali e psicologiche”. D’altra parte è egualmente “a rischio” la posizione di quel genitore che per necessità o altro motivo è abituato con eccessiva disinvoltura a delegare a nonni e baby-sitter l’assistenza e l’educazione dei figli e tutte quelle funzioni che solitamente vengono svolte da un genitore. Così come è successo ad un papà di Trani (anch’egli separato dal coniuge) che si è visto revocare dalla Corte di Appello di Bari l’affidamento della prole con la giustificazione (confermata poi dall’ennesima sentenza della Cassazione, la n.648/03 depositata il 17 gennaio scorso) che si era avvalso in modo eccessivo di altri soggetti nell’espletamento delle funzioni insostituibili di un genitore. I bambini sono stati affidati pertanto alla madre, in questo – pare – più attenta e fedele del padre: “ella – si legge nella sentenza – anche dopo la separazione, ha svolto effettivamente, nei limiti di tempo che le erano concessi dal regime di “visita”, il ruolo materno, tenendo con sé i figli ogni giorno, accudendoli e curandone i rapporti con l’ambiente esterno; per contro, il genitore affidatario (cioè il padre), per necessità o per qualsiasi altro motivo, ha avuto un ruolo meno incisivo, delegando a terzi (nonni, baby sitter) molte funzioni che bambini di quella età attendono solitamente dalla madre”. La suprema Corte ha ribadito che l’affidamento alla madre è avvenuto nell’esclusivo interesse dei minori per assecondarne la legittima aspettativa a vedersi accuditi ogni giorno e a godere della “presenza quotidiana” del genitore. Sentenze, quelle ricordate, che, prima ancora che sui princìpi giuridici ad esse sottese, fanno riflettere molto sui princìpi di “vita” che le hanno determinate.