Il genio sul vulcano

La sfida al Chimborazo di Alexander von Humboldt e la sua eredità
La regione del Chimborazo-alliance/dpa/AP Images

Con i suoi quasi 6500 metri di altezza il Chimborazo è la massima cima delle Ande ecuadoriane. Vulcano del Quaternario non più attivo e senza cratere, torreggia imponente e solitario su un elevato altopiano a circa 150 chilometri a sud di Quito. Inferiore di 2547 metri all’Everest, si protende maggiormente nello spazio se si considera la distanza tra sommità e centro della terra, grazie alla sua vicinanza all’Equatore, dove il nostro pianeta schiacciato ai poli presenta un rigonfiamento. Per questo, ancora nel XIX secolo, era considerato la montagna più alta del mondo.

“Papà Chimborazo”: così viene chiamato dagli abitanti dell’altopiano questo colosso ammantato di nevi che alimentano gli affluenti di due fiumi, uno dei quali il mitico Rio delle Amazzoni. Già nel 1700 oggetto di indagini senza però risultati scientificamente apprezzabili, rappresentò la più grande ossessione del naturalista ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt, soddisfatto solo finché nel 1802, insieme ad altri tre compagni, ne affrontò la scalata. A quota 5917, tuttavia, appena 300 metri sotto la vetta, non fu possibile proseguire per mancanza di ossigeno. Con ciò nessuno prima di lui aveva raggiunto tale altezza!

Immense le difficoltà incontrate (in certi tratti bisognò procedere strisciando carponi lungo un crinale non più largo di cinque centimetri), ma enorme la messe di informazioni e di campioni raccolta. Fu come se l’intero mondo vegetale gli si dispiegasse a strati sovrapposti a mano a mano che procedeva nell’ascensione: dalle specie tropicali ai piedi della montagna a quelle dei livelli superiori tipiche di un clima più temperato, fino ai licheni sotto la linea delle nevi perenni.

Ma non solo per questo itinerario botanico il nome di Humboldt è legato al Chimborazo. L’ho scoperto leggendo la sua bellissima biografia edita da Luiss University Press col titolo L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe dimenticato della scienza: quasi 400 pagine di testo, escluse note, fonti e bibliografia, che la storica e scrittrice inglese Andrea Wulf ha saputo rendere estremamente trascinanti, al seguito di un giramondo che a Parigi o a Berlino, nelle Americhe o nella steppa kazaka al confine mongolo della Russia, si sentì a casa dovunque.

Dopo l‘impresa ecuadoriana, infatti, questo geniale scienziato vissuto tra Settecento e Ottocento era ormai pronto per formulare una nuova visione della natura, che nella sua meravigliosa varietà gli era apparsa “una”, un unico organismo vivente dove tutto – pietre, piante, animali e uomini – era mirabilmente connesso, e dove ogni singolo fenomeno trovava senso in relazione con l’insieme. «In questa grande catena di cause ed effetti – sosteneva – non c’è un sol fatto che possa essere considerato isolatamente». Visione, questa, ben diversa dalle rigide classificazioni del mondo naturale proprie del suo tempo, e alla quale concorda ai nostri giorni Benedetto XVI quando afferma che «il libro della natura è uno e indivisibile». Sì, il Chimborazo costituì una tappa fondamentale per il giovane Humboldt, l’illuminazione-chiave della sua esistenza, che determinò il suo pensiero, i suoi studi futuri.

Primo a teorizzare l’unità basilare del mondo creato, per cui ogni attentato alla integrità ecologica nel più sperduto angolo ha conseguenze sull’intero pianeta e i suoi abitanti, fu anche il primo a richiamare l’uomo alla propria responsabilità verso la natura elencando i futuri effetti catastrofici operati dal suo dissennato saccheggio: inquinamento, cambiamenti climatici, estinzione di specie animali e vegetali, carenza di risorse necessarie alla vita…

Nel suo indagare come “funziona” il mondo che ci ospita, inventò le isoterme, ossia le linee della temperatura e della pressione che appaiono sulle odierne mappe climatiche, e scoprì l’equatore magnetico, unendo al rigore dello scienziato la passione dell’innamorato, la ragione al sentimento: le due forme di conoscenza di cui siamo dotati. Capace di un’attività lavorativa incredibile («come se avesse otto gambe e quattro mani»), ma anche di affrontare sacrifici al limite delle possibilità umane (rischiò più volte la vita), Humboldt divenne «il punto di riferimento della comunità scientifica, con oltre 50.000 lettere scritte e almeno il doppio ricevute». Per lui infatti– osserva la Wulf – «la conoscenza andava condivisa, scambiata e messa a disposizione di tutti».

Tradotti in moltissime lingue, i suoi libri andavano a ruba fra i lettori comuni e influenzarono molti dei più grandi pensatori, artisti e scienziati dell’epoca. In seguito però la fama di quest’uomo ritenuta dai suoi contemporanei seconda solo a quella di Napoleone rimase limitata quasi esclusivamente alla cerchia degli studiosi. Per questo L’invenzione della natura rende finalmente giustizia ad un genio le cui tracce nel pianeta sono innumerevoli: basti pensare a quanti capi, baie, correnti marine, laghi, fiumi, catene montuose, piante, animali, minerali, città, parchi naturali e monumenti sono intestati a suo nome. Perfino sulla luna esiste un “Mare Humboldtianum”.

Uomo non privo di contraddizioni, «critico acceso del colonialismo e sostenitore delle rivoluzioni in America latina, fu tuttavia il ciambellano di due sovrani prussiani. Ammirava gli Stati Uniti per le loro idee di uguaglianza e libertà, ma non smise mai di criticarli per non essere riusciti ad abolire la schiavitù. […] Era sicuro di sé, eppure costantemente alla ricerca spasmodica di approvazione. Ammirato per l’ampiezza delle sue conoscenze, era tuttavia temuto per la sua lingua tagliente. […] Poteva essere vanesio, ma insieme capace di dare gli ultimi soldi che gli rimanevano ad un giovane scienziato che lottava per sfondare». Date queste premesse, non stupisce sapere che un tale uomo morì in povertà.

E oggi? «Ecologisti, ambientalisti e scrittori di natura fanno riferimento alle intuizioni di Humboldt, sia pure nella grande maggioranza dei casi inconsapevolmente». Egli non si sposò mai, non ebbe figli suoi. Ma siccome la nuova sensibilità ecologica dell’epoca in cui viviamo è una sua eredità, non è errato concludere che per questo aspetto siamo tutti figli di Humboldt.

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