“Genio e follia”
Arte e follia sono sempre state non-incompatibili, avendo oltretutto confini mobili e mutevoli. Per non parlare delle origini religiose (estatiche, sciamaniche) dell’arte e della letteratura, basta pensare a Platone, che, molto diffidente nei confronti dei poeti per la loro passionalità (traduco così alla buona la sua critica), pur essendo egli stesso filosofo-poeta, assegnava la poesia alla sfera della “follia” (Fedro), di una follia che era, entusiasmos, cioè, alla lettera, inabitazione del dio nell’anima (Ione). Anche il Medioevo cristiano non sfugge, pur con tutte le sue barriere teologiche e cautele spirituali, alla “follia” dell’arte: inventa nelle corti il giullare, il fool (= pazzo), il poeta- buffone che può dire tutto (o quasi), e che ritroviamo poi, in un sublime scambio di parti tra il morto fool Yorick e Amleto, nel comportamento “pazzo” del principe di Danimarca. Ma storicamente, la follia dell’arte accompagna non poco e non superficialmente grandi personalità tra Rinascimento e Romanticismo, da Michelangelo (“La faccia mia ha forma di spavento “) a Caravaggio, da Borromini a Goya a mille altri. Nella letteratura moderna, a partire da Hölderlin, la follia dell’arte assume lo statuto di tragedia irreversibile; il grandissimo lirico entra propriamente nella follia dopo aver scritto, ancor padrone di sé ma sulla sua ala che si andava dispiegando, i propri massimi testi. E poi, da Nietzsche a Lautréamont a Strindberg, come nella pittura da Van Gogh a Munch a molti altri, la follia entra, più o meno patologicamente, nella tensione e nella lacerazione diventata spesso connaturale e persino costitutiva nella letteratura, e nell’arte contemporanea. Questa costatazione muove e sigilla il saggio (1922, poi 1949) del grande psichiatra-filosofo Karl Jaspers, solo ora tradotto da noi per l’editore Cortina, accompagnato in postfazione da un saggio, altrettanto importante di Maurice Blanchot (1953). Raccomandandoli entrambi al lettore, aggiungerei due coordinate storiche che mi sembrano necessarie. Nel mondo cosiddetto moderno (si tratta di una definizione ideologica che qui non è il caso di discutere) la letteratura e l’arte, dopo la breve ed effimera, se pur altissima, sintesi ideale del Rinascimento, vanno incontro ad una fratturazione e ad un allargamento traumatico, doloroso, del loro campo di esperienza e di rappresentazione, perché la storia culturale si lacera essa stessa: dall’unità teologica medievale al divorzio cattolico- protestante, dall’umanesimo antropocentrico a quello cosmocentrico, con le sue tensioni centrifughe e i suoi inevitabili smarrimenti; dall’idealismo al realismo, dalla centralità alla progressiva eccentricità e poi emarginazione dell’arte nella società dello scetticismo e dei profitti. C’è più che il necessario per destabilizzare la già incerta mobile “normalità” degli artisti. Sotto forma di domanda Jaspers più che chiederselo, afferma che la follia diven- ta più che mai ad essi necessaria: “Viviamo in un’epoca di imitazione e di artifizi, in cui ogni spiritualità si converte in affarismo e ufficialità, in cui tutto viene fatto in vista di un rendimento, in cui la vita è una mascherata, un tempo in cui l’uomo non perde mai di vista ciò che è, in cui la semplicità stessa è voluta e l’ebbrezza dionisiaca fittizia come l’arte che la esprime, arte di cui l’artista è troppo consapevole, e compiaciuto d’esserlo. In una simile epoca, è forse la follia la condizione di ogni autenticità in campi in cui, in tempi meno incoerenti, si sarebbe stati capaci di esperienze e di espressioni autentiche anche senza di essa?”. E, parlando di Hölderlin e della sua ragione ormai scivolante, Blanchot dice qualcosa che ci è familiare nell’arte contemporanea perché lo ritroviamo in tante opere, letterarie e figurative, che queste parole ci aiutano a capire in profondità: “( ) è il destino poetico, è il senso della verità che egli si dà come compito da portare a termine, che egli compie silenziosamente, saggiamente, con tutte le forze della padronanza e della decisione, e questo movimento non è suo proprio, è il compimento stesso del vero che, a un certo punto e a dispetto di lui, esige dalla sua ragione personale che essa divenga pura trasparenza impersonale, da dove non c’è più ritorno”.