Genìa
Genìa nel significato letterale sta ad indicare la razza, la discendenza, ma nel significato corrente indica una moltitudine di gente non buona. E di genìa parla l’opera prima della scrittrice napoletana Roberta Scotto Galletta, che si intitola proprio Genìa (Edizioni Zandegù) Il romanzo che è arrivato in seconda posizione al Premio Calvino per inediti, sorprende e sconcerta. Sorprende perché solitamente è difficile trovare tanta grinta, tanto desiderio di moralità in un giovane scrittore; sconcerta perché dopo la lettura nasce spontanea la domanda: le nostre comunità sono diventate realmente così paranoiche, così deformi, così protervamente asfittiche e devastanti? Si comprende subito che la storia narrata è emblema di un disagio diffuso a più livelli – sia sociologico che culturale – e che l’autrice, esasperando situazioni e comportamenti, vuole scavare dentro le pieghe dei comportamenti umani segnati spesso da pettegolezzi, invidie e egoismi meschini per cercare almeno un po’ di capire che cosa è avvenuto. Ricorre infatti con insistenza in tutto il libro la domanda: ch’è stato? donde nasce questa morte che si respira nell’aria? Sembra di vedere tra le pieghe della vicenda la degenerazione della nostra gente, venuta così dolorosamente alla ribalta nella provincia napoletana in questi ultimi tempi. Una degenerazione che è snaturamento della comunità sociale, che si è disgregata sempre più per divenire – per dirla con il giornalista Giuseppe D’Avanzo – plebe, e la plebe; si sa, non riesce più a curarsi dei rapporti perché punta all’effimero, all’edonismo, calpesta i sentimenti, ignora l’onestà e la giustizia, cerca alleanze sottobosco per farsi spazio a tutti i costi. L’isola nella quale si svolge la vicenda narrata da Roberta Scotto Galletta è sicuramente metafora di un’isolamento in cui la plebe volutamente si radica e dove la genìa diventa l’unico debole legame con un passato da cui, nonostante tutto, non si può prescindere, ma che in fondo si vorrebbe azzerare. Questo comportamento plebeo, come sappiamo, favorisce la criminalità organizzata e con essa il mercato di morte che accerchia le giovani generazione e di fronte al quale tutti alzano le mani, anche quando ci scappa il morto. Il giovane Arturo protagonista del racconto, abbandonato dal padre e amato perdutamente dalla madre Elsa, è cinquant’anni dopo il diretto discendente di quell’Arturo descritto dalla Morante ne L’isola di Arturo, al quale Genìa fa esplicito riferimento, con la sostanziale differenza che se nel romanzo della Morante il protagonista, disilluso, taglia con l’isola che gli ha procurato troppi dolori, per andare incontro ad un futuro diverso, il protagonista di Genìa vi resta invischiato fino a perdersi. Cinquant’anni anni sono passati da quando apparve il libro della Morante. Oggi la situazione sociale in cui i nostri giovani sono costretti a vivere è molto cambiata e non certamente in meglio: accresciuti i drammi familiari, la droga ha attecchito un po’ dovunque, la politica ha devastato spesso la democrazia, la criminalità ha influenzato pensiero e azione. I personaggi di Genìa vanno ancora in chiesa, accarezzano la medaglia di padre Pio, ma purtroppo hanno perso ogni riferimento con l’umana pietà, con l’onestà intellettuale, con la capacità di perdono, con una sincera disponibilità alla fraternità. Solo un giovane, Marcello, piange veramente per la tragica fine di Arturo e si sente responsabile di quella morte. Tutti gli altri assistono distaccati, fingono di non vedere, di non sentire, fanno discendere ogni male dalla genìa, per tacitare almeno un po’ la propria coscienza. Il suo pianto è il solo grido di speranza che si leva sulla degradata condizione sociale descritta dalla Scotto Galletta con incalzante lucidità, in un linguaggio icastico e ritmato, impulsivo e felice.