Genfest 1985. Ventimila cuori per la fraternità

Nell'anno di Gorbaciov, dei Duran duran e degli yuppies: i giovani dei focolari propongono nuove vie per l'unità tra i popoli per superare i blocchi tra Est e Ovest e i conflitti che dilaniano Nord e Sud del pianeta
Genfest 1985

C’era un bel sole caldo quel 29 marzo a Roma. E dire che solo una dozzina di giorni prima, aveva addirittura nevicato.
In Italia governava Craxi, ma già s’intravvedevano i primi bagliori del berlusconismo e del suo impero mediatico. Intanto si moriva di mafia e di terrorismo: appena due giorni prima le Br avevano ucciso l’economista Ezio Tarantelli. Napoli impazziva per Maradona, il mondo per i Duran Duran, massime icone del rampantismo yuppies e di quello che all’epoca molti chiamavano “edonismo reaganiano”, col suo vademecum fatto di turbo individualismo e di predominio della forma sulla sostanza. Gli anni di panna, li avrebbero definiti di lì a poco.

C’era anche dell’altro, ovviamente; solo un paio di settimane prima era uscita l’attesissima We are the world dove i big del pop-rock planetario, da Springsteen a Michael Jackson, si erano ritrovati in Usa For Africa per raccogliere fondi per le popolazioni del Corno d’Africa colpite da unaa terrificante carestia. Non solo: da pochi giorni l’ancor semisconosciuto Michail Gorbaciov era diventato il nuovo plenipotenziario dell’Unione Sovietica, anche se all’epoca nessuno poteva immaginare che in meno di un lustro quell’impero sarebbe svaporato come neve al sole.

Ebbene, se un extraterrestre fosse sbarcato quella mattina nel gran catino del Palaeur romano, avrebbe probabilmente pensato d’essersi infilato in un universo parallelo, infinitamente diverso da quello che continuava a folleggiare a pochi metri da lì: una moltitudine di giovani, con le loro facciotte sorridenti e multietniche gremiva le gradinate in un allegro intersecarsi di mille  idiomi. Ventimila giovani come me, arrivati da ogni angolo del pianeta per ribadire che sì, un mondo nuovo, più giusto e solidale, era possibile; cristiani e mussulmani, buddhisti e agnostici, perfino qualche ateo curioso di scoprire e magari oltrepassare il limite che separa un’illusione da una speranza concreta. Ventimila cuori per ribadire l’urgenza della fratellanza universale di fronte a un mondo ancora dilaniato da infiniti conflitti: i blocchi contrapposti tra Est e Ovest, tra Nord e Sud di un mondo perennemente dilaniato da conflitti d’ogni genere, compresi quelli sempre più evidenti tra progresso tecnologico e natura.

“Molte vie per un mondo unito” era il titolo di quel Genfest, il quinto della storia e il primo realmente mediatico anche grazie a una serie di dirette telefoniche intercontinentali. E quelle vie furono anche i cardini del discorso programmatico che Chiara Lubich offrì a tutti noi: di fatto il lancio del neonato movimento “Giovani per un Mondo Unito”.

Avevo 27 anni, e per me il Genfest era già cominciato da oltre un mese, da quando mi avevano proposto di trasferirmi al Centro Gen mondiale proprio per dare una mano alla costruzione del programma. Soltanto adesso però, girando lo sguardo a 360 gradi dalla grande pedana azzurra piazzata in platea, capivo davvero d’esser parte di qualcosa di grande. Ricordo quello strano mix di entusiasmo, commozione, e anche di terrore (mi chiedevo perché tra tanti avessero scelto anche me, un misconosciuto dj radiofonico, per presentare un evento così complesso). Ricordo l’energia e la fiducia con cui la Lubich ci parlò, la forza profetica di molte testimonianze, l’emozione con cui, la mattina seguente, cantai la mia Vedrai insieme alle ragazze del Gen Verde, e il groppo in gola con cui seguii l’alzarsi dei palloncini colorati sul gran finale. Poi, la corsa verso piazza San Giovanni per ascoltare, insieme ad altri centinaia di migliaia di giovani, Giovanni Paolo II indire la prima delle Giornate Mondiali della Gioventù.

Sono passati altri 27 anni da quei due giorni:  la metà esatta della mia vita, ora che ci penso. Ma quelle vie sono ancora lì, più attuali che mai, pronte per essere riproposte ad un mondo infinitamente diverso in superficie, eppure sostanzialmente identico nelle oscurità e nelle aspirazioni della sua anima.

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