Generazioni unite per l’emancipazione femminile

Anna Granata, docente di Pedagogia all’Università Milano-Bicocca e autrice del libro “Ragazze col portafogli. (Una pedagogia dell'emancipazione femminile)” (Carocci editore), in occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna analizza i legami tra lavoro, educazione e collaborazione tra madri e figlie per raggiungere una reale autonomia
Mamma con la sua bambina - Licenza Pexels

Qual è la relazione tra il denaro e l’emancipazione femminile?

I soldi sono quanto di più concreto e di più simbolico. Hanno a che fare con le scelte e coi legami, con la capacità decisionale e con l’autonomia. Non ci può essere emancipazione femminile senza autonomia finanziaria, lo diceva già – con altre parole – Virginia Woolf nel 1929 quando parlava oltre della “stanza tutta per sé” delle “cinque sterline l’anno” per poter essere donne libere. L’educazione passa più dai gesti concreti che dalle parole. E questo vale anche per l’educazione delle bambine e della ragazze: regalare loro un portafogli, una volta uscite dall’infanzia, comunica l’idea che sono capaci di compiere le prime scelte in autonomia, di seguire le proprie attitudini e aspirazioni nella scelta di un percorso di studi, di realizzare i propri progetti per il futuro. Un messaggio fondamentale per le nostre ragazze. Il primo passo per una pedagogia dell’emancipazione.

La questione del denaro ci porta però a quella del lavoro femminile, in cui l’Italia purtroppo non eccelle: che cosa possiamo dire in proposito?

Siamo l’ultimo Paese – su 22 – in Europa per occupazione femminile. Solo una donna su due lavora, e prevalentemente al Nord e nelle grandi città). Anche tra quelle che lavorano, spesso con contratti precari e peggio pagate degli uomini, una su 5 abbandona dopo il parto: c’è una questione di debolezza strutturale del nostro sistema di welfare, per cui senza una rete famigliare di supporto le donne faticano a conciliare cura e lavoro, ma c’è anche una questione culturale perché le donne sono considerate le uniche detentrici della cura. C’è scarsa condivisione nella coppia, sensi di colpa e spirito di rinuncia hanno spesso la meglio sulle ambizioni lavorative. Non dimentichiamo poi che una donna su tre non ha un conto corrente intestato a proprio nome: se fino al 1965 era vietato dalla legge per una donna coniugata averne uno, oggi soffriamo ancora di questo retaggio culturale e le nostre bambine e ragazze crescono con l’idea che parlare di soldi, gestire i soldi, sia ancora una questione più dei padri che delle madri, più dei maschi che delle femmine; la stessa “paghetta” è riservata più ai figli maschi che alle figlie femmine.

Anna Granata

Qual è invece il legame tra l’educazione e l’emancipazione femminile, e l’importanza che madri e figlie lavorino insieme a tal fine?

Per molto tempo abbiamo pensato, come studiosi, di tenere separato il tema dell’educazione delle bambine dal tema dell’emancipazione delle donne. Questi due processi invece sono congiunti e circolari, uno richiama l’altro. Il pedagogista brasiliano Paulo Freire, che ha dedicato la sua vita alla liberazione di tutti gli oppressi, dice una frase molto bella: “Nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: ci si libera solo insieme”. Questa frase è vera anche per la liberazione delle donne. Se non libero me stessa, non potrò liberare neanche mia figlia o mia nipote. Se mia figlia ha un moto di ribellione ed emancipazione, questo è un messaggio anche per me e non solo per lei. È nella dialettica tra le generazioni che possiamo avviare un cambiamento culturale. Le bambine guardano prima di tutto alle madri: è quello che ci ha spiegato la premio Nobel per l’economia Claudia Goldin, nell’osservare che rispetto all’occupazione femminile è ancora prevalente il ripetersi dei modelli famigliari. Una ricerca condotta a livello transnazionale (India, Stati Uniti, Cina, Europa e anche Italia) ha verificato come le figlie di madri lavoratrici e in carriera più facilmente lavorano e fanno carriera, per i figli maschi l’impatto non è invece così evidente. Il lavoro è dignità, questo sempre possiamo comunicarlo alle nostre ragazze.

Che cosa fare quindi collettivamente, come società?

Abbiamo bisogno di un movimento trasformativo che ci coinvolga tutte: le madri, le nonne, le zie, le amiche di famiglia, le educatrici, le allenatrici, le professioniste, le imprenditrici, le insegnanti. Le insegnanti sono le prime (e a volte le uniche) professioniste che le bambine vedono lavorare: grande è la loro responsabilità nel veicolare un’idea di femminilità autonoma e libera, emancipata e non supina, appassionata del proprio lavoro. Troppo spesso nella scuola viene promossa un’idea di “brava bambina” e di “brava alunna”, in contrapposizione al maschio più “discolo”: la scuola promuove in questo modo un’immagine del femminile ancora una volta come sottomesso e subordinato. Eppure siamo il paese di Maria Montessori, il cui moto era “aiutami a fare da solo/a”: e imparare da sé ed educarsi da sé vuol dire anche decidere per sé, trovare la propria strada, in una parola emanciparsi.

Anche in famiglia si possono però ripetere questi schemi: a che cosa dobbiamo fare attenzione nel quotidiano?

Per esempio allo stare a tavola, che nel nostro contesto culturale ancora il luogo dove le nuove generazioni vengono introdotte ai ruoli sociali: di genere, ma anche di generazione. L’idea del capofamiglia uomo e della donna silenziosa e operosa è ancora fortemente presente attorno alle nostre tavole, e da lì dobbiamo partire: dobbiamo smettere di alzarci quando manca il pane, prendere la parola per dire la nostra, esprimere liberamente il dissenso anche davanti ai nostri figli, esprimere un punto di vista libero, proprio, personale. Ancora troppi sono i tavoli dai quali sono escluse le donne: nei contesti culturali o religiosi, nei contesti mediatici. Con le nostre figlie, nipoti, alunne possiamo dare vita a un movimento positivo di emancipazione femminile a beneficio di tutti e tutte.

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