Generazione rubata

Phillip Noyce è un regista australiano trasferitosi negli Stati Uniti, dove ha diretto opere commerciali. Questa volta, invece, ha scelto la denuncia, dando risultati migliori. Siamo in Australia, intorno alla metà del XX secolo, e il governo segue una politica razzista, mirante a cancellare, un po’ alla volta e senza far chiasso, le culture primitive. Si impediscono i matrimoni fra aborigeni, strappando le bambine alle famiglie per educarle in campi-scuola molto lontani e indurle a vivere fra i bianchi. Si tratta di fatti noti, eppure si resta impressionati quando un buon film ce li ripropone nella drammaticità delle loro conseguenze. La pellicola, girata prevalentemente in esterni, luminosi e vari, accompagnata da una colonna sonora poliritmica, si avvale della recitazione aborigena autentica, che ci offre, attraverso numerosi primi piani, espressioni e fisionomie inconsuete. Il racconto poggia sull’abilità del regista di evidenziare la sfida fra l’intelligenza delle fuggiasche e quella degli inseguitori e sulla capacità di valorizzare la suspense, come nella scena notturna della fattoria quando le sagome scure dei ricercatori e il loro avvicinarsi progressivo creano un’atmosfera di paura. Sono tre le sorelle rapite agli affetti parentali. Le sconsolate riflessioni della maggiore, nella notte precedente la fuga, esprimono il disorientamento provato al contatto con i bianchi e il desiderio di ritornare a casa. Non ci si deve aspettare, però, il pathos tipico delle commedie familiari. I motivi dominanti sono l’ingiustizia subita e il coraggio delle ragazzine nello scegliere la libertà, affrontando eroicamente i pericoli del prolungato girovagare nella natura inospitale. Un film senza consolazioni. La sua durezza fa capire come l’autore abbia coraggiosamente messo il dito su una piaga della storia recente del suo paese, non ancora rimarginata.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons