Gender, la rivoluzione triste

Una teoria che ripensa la convivenza umana: pensiero, corpo e psiche
Susy Zanardo è donna, mamma, docente di Antropologia filosofica e Filosofia morale all’Università Europea di Roma. Recentemente ha pubblicato su Aggiornamenti sociali un saggio che fa il punto sul dibattito in corso su Gender e differenza sessuale. L’ha scritto perché «c’è molta letteratura in giro su questo tema, ma di solito è poco serena, poco rigorosa, fatta più di contrapposizione ideologica che di comprensione reciproca». Il motivo è che «la discussione è spesso condotta a livello emozionale, con reazioni anche violente, in quanto coinvolge la parte più intima e vulnerabile della nostra identità e relazionalità». Per questo la intervistiamo, per provare a capire, con rigore ma serenamente, un tema che divide.

 

Cominciamo dall’inizio. Com’è nata la teoria “gender”?

«Semplificando un po’, possiamo dire che sia sorta in ambito psichiatrico, a metà anni Cinquanta a Baltimora (Usa), per rispondere ad un problema pratico: ai bambini che nascono con genitali ambigui non è possibile assegnare con sicurezza l’appartenenza al sesso maschile o femminile. Allora si parlava di ermafroditi, oggi di “stati intersessuali”. L’altro motivo è che le persone “transessuali” si sentono intrappolate in un corpo che non corrisponde a quello che provano nell’intimo. Per venire incontro a queste situazioni di sofferenza, servivano innanzitutto due termini, uno che indicasse il sesso biologico, il corpo col quale nasciamo, l’altro il cosiddetto sesso psico-sociale (o anagrafico). Si pensava che fosse possibile svincolarsi dal corpo, almeno nei primi 18 mesi di vita, per cui l’identità poteva essere configurata in funzione di come veniva allevato il bambino e non tanto del corpo che aveva».

 

Furono fatti esperimenti sui bambini con esiti fallimentari…

«Proprio così. Comunque il femminismo radicale statunitense degli anni Settanta prese il concetto di gender dall’ambito medico, perché utile a capire la sofferenza di molte donne e delle minoranze sessuali. Si voleva affermare che c’è un sistema sesso-genere (o natura-cultura), con due piani distinti: il corpo, il sesso con cui si nasce, da una parte, e la costruzione su questo corpo, fatta per ingabbiare l’uomo nella produzione e la donna nella riproduzione, dall’altra».

 

Anche l’uomo è una vittima?

«Sì, ma a lui è andata decisamente meglio. Secondo questa teoria, infatti, la società si è costruita nel tempo attraverso lo scambio del corpo delle donne, la merce più preziosa perché poteva procreare. Una merce da controllare per perpetuare la specie e rinsaldare i legami sociali tra gruppi e famiglie. Le donne sono state sfruttate per la loro capacità procreativa, mentre le minoranze sessuali sono state emarginate perché uscivano da questo schema, dal cosiddetto “contratto eterosessuale”. Questo è stato il primo passo nella storia del movimento gender, che parla di genere e non di corpo, perché il genere è il ruolo imposto alle donne. È un sesso sociale».

 

Il secondo passo?

«Le femministe si resero conto che con queste affermazioni avrebbero comunque riconosciuto un sesso di partenza, un sesso naturale. L’obiettivo invece era proprio negare il naturale, per cui il nuovo slogan diventò: tutto (anche il sesso) è costruito culturalmente. E non esistono solo due sessi: in un primo momento si parlò di cinque sessi, oggi di un numero indeterminato, tante varianti quanti siamo ciascuno di noi (vedi le 50 e più scelte di identità sessuale oggi possibili su Facebook: da neutrois a transgender, da non-binary ad androgyne, da genderqueer a two-spirit). A proposito dei bambini, quindi, le posizioni più estremiste gridavano: non assegniamo loro alcun genere (per lo meno quando ci sono ambiguità), lasciamo il nuovo nato indifferenziato, neutro, poi quando crescerà deciderà di quale genere vuole essere».

 

Sempre i bambini messi in mezzo?

«Sì, come al solito, ma non solo loro. L’altro grande rischio è cancellare le donne dietro un neutro quasi asettico. Dopo tutta la fatica fatta per affermare “siamo donne”, per valorizzare la differenza femminile e la specificità del nostro stare al mondo, tutto sembra sparire, uniformato e appiattito dietro la (pur giusta) preoccupazione di non discriminare e lasciare ciascuno libero di esprimere la propria vita. Comunque la teoria gender ha prodotto anche domande e riflessioni importanti, sono le altre culture a volte ad essere in ritardo, nel senso che devono attrezzarsi a rispondere».

 

Quali altre culture?

«Il filone più notevole è il femminismo della differenza, che non segue il gender, ma difende l’irriducibilità della differenza sessuale, per cui non esiste il neutro. C’è anche il cosiddetto “femminismo di Stato”, più superficiale, che preme su emancipazione e parità, battendosi con strumenti legislativi per le quote rosa. E infine c’è la cultura cattolica che ha un’antropologia fortemente relazionale. Naturalmente ognuna di queste prospettive è, al suo interno, attraversata da molte differenze».

 

Approcci molto diversi…

«A volte sembra che ciascuno sottolinei un pezzetto di verità. Ma non si possono tagliare col bisturi pezzi della persona umana: pensiero, corpo e psiche sono intrecciati. La teoria gender, per esempio, non tiene conto del corpo, mentre io credo che, durante tutta la vita, sia necessaria una rinegoziazione continua tra corpo vissuto, percezione di sé, ruolo sociale e cultura. La nostra vita è mediata dal corpo, ma tutto nel corpo passa attraverso la nostra capacità di pensare, di dare un senso a quello che viviamo».

 

Un dualismo irrisolvibile?

«Da una parte, il determinismo biologico vede un unico aspetto, ma il corpo da solo non fa la differenza; non posso dedurre il mio stare al mondo da come sono connotata dai miei cromosomi. Anche le neuroscienze ci mostrano che esiste una plasticità cerebrale che non va in collisione con la libertà. I culturalisti, dall’altra parte, rispondono che siamo condizionati da stereotipi e ruoli, per cui la mia identità sessuale è una messa in scena, una maschera. Il punto è che le due dimensioni sono entrambe verità parziali, che non possono essere slegate. L’essere umano è uno».

 

Torniamo alla storia del gender…

«Siamo arrivati alla “denaturalizzazione del sesso”: ci si distacca dalla natura, dal dato biologico e tutto diventa solo rapporto di potere, come le classi sociali. Il peggior destino è dunque essere: donna, nera, operaia, lesbica, vecchia. Se vogliamo aiutare queste persone, dicono queste teorie, dobbiamo scardinare le forme sociali. È il progetto utopistico di una società senza generi, o continuamente riconfigurati, in cui ognuno, da solo, costruisce sé stesso».

 

Possibile?

«Secondo questo progetto dovremmo abolire tutte le differenze, ma la natura stessa è fatta di differenze! Comunque rimane ancora l’ultimo passaggio (per ora), il queer (strano, bizzarro, insolito), col quale ci si smarca anche dal sociale: l’identità è un’illusione, non c’è una trama narrativa che tenga insieme la mia storia, perché sarebbe una gabbia opprimente, non ci sono categorie che ci definiscono, perché non vogliamo limiti e determinazioni».

 

Non rimane nulla…

«Rimane solo la pratica queer, che non è un’antropologia trionfalistica o giocosa, ma malinconica. Sono sgretolate le certezze, la storia, il senso dell’esistenza. Sei solo o sola, senza orientamento, senza famiglia, senza legami sociali perché diffidi anche di quelli, perché un’identità collettiva ti intrappolerebbe. Ma siccome l’essere umano vive di relazioni, qui ed ora, c’è la consapevolezza del fallimento di questa teoria. È una rivoluzione triste: alcuni affermano che la pratica queer è “un errore necessario” finché non si trova di meglio. È come se fossimo in un crocevia di strade tutte percorribili, ma irreali. Il problema del nostro tempo è la perdita di realtà, non la perdita di Dio, perché nella realtà Dio lo trovi. Se invece perdi la realtà, sei solo, come il criceto che gira inutilmente sulla ruota».

 

Cosa proporre?

«È fondamentale mostrare la bellezza del qui e ora, del presente, del limite, della determinazione. Posso trovare la sorgente di senso proprio nella contingenza dell’attimo che vivo, recuperando la capacità di pensare, cioè la fiducia nella ragione, e la speranza. Come mamma ho sperimentato che nel limite c’è una risorsa grandiosa: la vita viene trasmessa a partire da quello che è il mio corpo sessuato di donna insieme con il corpo di un uomo. Due sessualità ognuna delle quali da sola non è tutto l’umano; ma se, come donna, dono il mio limite, proprio quello diventa il luogo in cui un altro viene generato. E lo stesso dirà l’uomo. Dal limite nasce la carne dei miei figli che non è una mortificazione, ma la bellezza più grande, che mi fa aver occhi per il piccolo, l’inerme, il vulnerabile; questa sensibilità c’è anche nella cultura gender (la Butler parla di vulnerabilità e fragilità). Al queer dunque direi: non privatevi della possibilità di passare attraverso il limite come risorsa generatrice di senso, generatrice di vita. Non abbiamo altro».
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