Gela, tre attentati in tre giorni
L’ultimo episodio, nella notte del 20 ottobre, quando un incendio stava per distruggere il bar Lory, nel quartiere Caposoprano. Se n’è accorto un metronotte, che ha dato l’allarme e ha consentito l’arrivo dei vigili del fuoco che sono riusciti a domare le fiamme prima che queste potessero avvolgere l’intero locale. Appena il giorno prima, altri attentati incendiari avevano distrutto il bar Belvedere e il lido B Cool Beach.
Ma la criminalità e il racket trovano una città che non vuole abbassare la testa, che prova a reagire. Una manifestazione si terrà sabato prossimo nell’area antistante il B Cool Beach, il lido del quartiere Macchitella colpito dalle fiamme di venerdì. Si parla di “emergenza sicurezza” e si chiedono al prefetto di Caltanissetta maggiori controlli e l’intervento dell’esercito.
Hanno aderito Confcommercio, Confesercenti, Casartigiani, Cna e Fipe-Confcommercio. Ma altre adesioni continuano ad arrivare. La città reagisce e cerca di alzare la testa. Non vuole piegarsi alle logiche che, negli anni ’80, la fecero teatro di una delle più feroci guerre di mafia.
Gela come il Bronx, Gela come la Chicago degli anni ’20. È lo stereotipo che riempiva, in quegli anni, le pagine dei quotidiani.
Qui Cosa Nostra e la nuova Stidda (l’organizzazione mafiosa nata proprio nel Sud Est, che si contrapponeva alla mafia tradizionale) insanguinarono a lungo le strade nel tentativo di imporre la propria legge. Gela era sulle pagine dei quotidiani nazionali che la dipingevano come teatro di efferati fatti di sangue.
Gela, popolosa città di un Sud che sconta mille problemi. Problemi irrisolti, problemi creati da uno sviluppo improvviso, da un’industrializzazione che ha prodotto reddito e ricchezza, ma che ha devastato il territorio, lasciando dietro di sé solo distruzione. Che ha fatto crescere a dismisura la città, spesso senza un vero e proprio programma urbanistico, con interi quartieri abusivi.
Gela, una città che aveva poco più di 40 mila abitanti nel dopoguerra, poi cresciuta fino ai 54 mila del 1961, ai 70 mila degli anni ’70 e agli 88 mila degli anni ’80. Oggi gli abitanti sono 75 mila, ma l’intero comprensorio, con tutto ciò che ruota attorno alla città, conta più di 100 mila abitanti.
Con la dismissione della Raffineria, sono stati persi molti posti di lavoro. Migliaia. Un numero difficile da quantificare, specie se si considera l’indotto. Le proteste di questi anni, la mobilitazione, a più riprese, della città si scontra con la lentezza di un piano di riconversione industriale e di rilancio produttivo. Il protocollo d’intesa siglato nel 2014 tra Raffineria spa (azienda del gruppo Eni) e istituzioni locali e nazionali prevedeva la trasformazione della raffineria da polo petrolchimico per lo stoccaggio e la trasformazione dei prodotti petroliferi, ad un nuovo tipo di raffinerai, cosidetta “Green Refinery” per produrre green diesel, green nafta e green Gpl.
Parte anche il Piano di riqualificazione e riconversione industriale di Gela: è stato approvato dal governo regionale nell’agosto scorso. Ora si passa alla fase attuativa. L’intervento prevede un investimento di 25 milioni (Pon imprese e competività e Piano di azione coesione 2014-2020), stanziati dal ministero per lo Sviluppo economico e la Regione Siciliana. Questi fondi dovrebbero permettere di sostenere le iniziative imprenditoriali nell’ottica di uno sviluppo sostenibile che consenta di voltare pagina rispetto all’industrializzazione forzata del dopoguerra e che permetta di riqualificare le aziende, di avviare nuove iniziative imprenditoriali e di dare una risposta sul piano occupazionale: in una parola il reimpiego dei lavoratori del bacino di Raffineria e dell’indotto che oggi hanno perso il lavoro. E il tasso di disoccupazione, a Gela, ha raggiunto livelli altissimi.
In questo contesto, la recrudescenza dei fenomeni di criminalità desta nuovo allarme.
«Gela è una città che ha molto sofferto in questi anni – commenta Giusy Li Vecchi, avvocato civilista –, è una città che ha faticato a trovare le giuste interlocuzioni con i governi nazionale e regionale, ma anche con Raffineria. Le istituzioni, anche locali, hanno faticato. Oggi, il comune è commissariato, i parlamentari all’Ars finora si sono occupati poco di queste problematiche. Il progetto di riconversione, all’interno di Raffineria, è appena iniziato. Ma, per quella che è la situazione attuale, non sarà questo a dare una risposta immediata all’emergenza occupazionale, ai tanti posti di lavoro che sono andati perduti. La vera riconversione deve ancora iniziare. Ci sono i protocolli, ci sono i piani, ma questi, finora, non hanno prodotto reddito per le famiglie. Ci aspettiamo, nei prossimi mesi, qualcosa di diverso».
E sull’emergenza criminalità aggiunge: «Non ci sono solo gli attentati di questi giorni, comunque gravissimi. A Gela, quasi ogni notte c’è un incendio di autovettura. Cosa c’è dietro? Certo il racket, la criminalità. Ma a volte ho il sospetto che ci sia soprattutto una crisi culturale, quasi una sorta di deriva del tessuto sociale della città che porta a delinquere con troppa facilità. Con troppa facilità si trova qualcuno disposto ad incendiare o a distruggere, magari solo per risolvere una lite o una crisi condominiale. Tutto questo deve farci riflettere. La presenza dell’esercito, a mio parere, può essere utile. Può aiutarci a rendere visibile lo Stato, le istituzioni, a sostenere e far crescere la nostra coscienza civile».