Gaza e le università
Ormai la diga del politicamente corretto mostra crepe evidenti: le contestazioni nelle università italiane, europee e statunitensi contro gli eccessi dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, oltreché a favore di uno Stato per i palestinesi, corrono in modo esponenziale. In Italia conosciamo questo tipo di manifestazioni da mesi, si ricordano soprattutto Pisa e Roma, perché hanno provocato scontri tra forze dell’ordine e studenti, con ovvio corredo di visioni opposte di maggioranza e opposizione sui comportamenti della polizia. L’intensità delle manifestazioni in quasi tutti gli atenei italiani non accenna a diminuire. Ma è negli Stati Uniti che le manifestazioni propalestinesi e antisraeliane stanno assumendo le dimensioni maggiori, un vero e proprio caso nazionale, con una forte presenza di manifestanti anche nelle maggiori università, come l’Ucla di Los Angeles e la Columbia di New York, che sono state sgombrate a forza dalle forze dell’ordine con gran fracasso nei mezzi di comunicazione.
Inutile negarlo, il sistema mediatico occidentale − in modo particolare quello italiano: oggi siamo scesi di 5 posizioni, dal 41° al 46° posto al mondo per la libertàdi stampa − ha generalmente uno sguardo più filoisraeliano che filopalestinese, dove più dove meno, dipende dalla reale libertà di stampa e di opinione di cui godono i nostri Paesi cosiddetti sviluppati (o forse, al contrario, ormai in declino). In Francia, Germania e in altri Paesi del nord Europa certamente l’informazione è più equilibrata.
Le agenzie di stampa internazionali paiono anch’esse orientate allo stesso modo, avendo accentuato, dopo il 7 ottobre, un a priori positivo nei confronti dello Stato d’Israele, mettendo invece la sordina alla gravità di quanto sta accadendo alle popolazioni civili della Striscia di Gaza. I social più frequentati (circa tre miliardi di utenti nel mondo), quelli ormai inseriti nel nuovo capitalismo digitale transnazionale, paiono anch’essi avere nei loro algoritmi un analogo sbilanciamento di giudizio, perlomeno nei Paesi che sostengono Israele, Stati Uniti e Unione europea in testa.
Ma sappiamo, ormai, che l’informazione non viaggia solo attraverso i media tradizionalmente più diffusi; nell’infosfera si creano canali di informazione alternativi, quelli che stanno sostenendo le contestazioni nelle università occidentali, sulle cui caratteristiche bisogna interrogarsi per conoscerle a fondo. Così, nonostante episodi puntuali e chiaramente circoscritti, non credo che si tratti di un’ondata diffusa di antisemitismo, ma casomai di atteggiamenti contro lo Stato guerrafondaio di Israele e contro i suoi eccessi nella Striscia, e in genere nel confronto dei palestinesi. C’è – è vero – chi ha tutto l’interesse, da entrambe le parti verrebbe da dire, a sottolineare la valenza antisemita delle manifestazioni. In realtà, mi sembra, siamo di fronte piuttosto a un movimento propalestinese, considerando quel popolo come vittima dei soprusi e delle ingiustizie dei potenti.
Analogamente, non mi sembra che il movimento di contestazione sia esclusivamente di sinistra, contro la visione di una destra forse troppo appiattita su posizioni filo-israeliane securitarie. C’è piuttosto una nota fortemente sensibile alle ingiustizie del sistema, alla sopraffazione dei più deboli, allo sfruttamento indebito di popoli interi, i meno favoriti dalla storia. La presenza di organizzazioni cristiane e di una seppur minima percentuale di ebrei alle manifestazioni depone in favore di una lettura più complessa degli eventi.
Indubbiamente, poi, emerge una forte contestazione contro il potere economico-politico di diverse lobby, da quella delle armi a quella farmaceutica, dalla lobby dei petroliferi a quella dei media. È una sorta di rivoluzione globale, contro i potenti, da qualsiasi parte essi siano. L’idealità giovanile sembra così essere tornata attiva, dopo il ’68, il ’77, le contestazioni di fine millennio e di inizio XXI secolo di stampo ecologista e le rivoluzioni arabe del 2011, per contrastare un potere considerato guerrafondaio, sfruttatore, ingiusto, insensibile alla crisi ecologica e alle migrazioni. Ecco un altro elemento di cui tener conto: le contestazioni hanno una nota “integrale”, sono schierate contro il potere costituito in combutta con il potere economico e mediatico.
Naturalmente questi movimenti sono pure sensibili alla società dei diritti, tutti i diritti, sia quelli relativi alla sfera personale e sessuale, sia a quelli sociali e collettivi. Insomma, un cocktail che comincia a inquietare i poteri costituiti, che paventano un attacco a quel “paradigma tecnocratico” denunciato da papa Francesco e da Edgar Morin, tra gli altri, che associa proprietà tecnologiche, controllo della scienza e dell’accesso ad essa, politiche belliciste, capitalismo selvaggio e via dicendo.
E allora? Dove si andrà? Siamo di fronte alla nascita di un movimento d’opinione simile a quello del ’68, avendo come focus i diritti dei popoli e non più quelli degli individui? È presto per dirlo. Quel che tuttavia è certo, è che le manifestazioni universitarie occidentali attaccano l’arroganza del potere ed anche, elemento non trascurabile, la loro impunità apparente.
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