Gaza, crimine di genocidio e Corte Internazionale di Giustizia
La drammatica situazione che dal 7 ottobre colpisce gli abitanti della Striscia di Gaza e interessa tutta la Terra Santa sta rischiando di destabilizzare e di innescare nuove tensioni in tutta la regione mediorientale. Questo è stato ribadito con forza nel recente discorso di papa Francesco ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede in cui il papa ha auspicato «che la comunità internazionale percorra con determinazione la soluzione di due Stati, uno israeliano e uno palestinese, come pure di uno statuto speciale internazionalmente garantito per la Città di Gerusalemme, affinché israeliani e palestinesi possano finalmente vivere in pace e sicurezza».
Da poco è stata azionata su questo tema una controversia giudiziaria di grande importanza, dalle forti ripercussioni non solo legali, ma anche politiche sulla credibilità internazionale di Israele.
IL CASO
Il 29 dicembre 2023, la Repubblica del Sudafrica ha presentato un ricorso contro lo Stato di Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia – quale principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite – nel contesto delle sue operazioni militari a Gaza. Il Sudafrica ha chiesto di avviare un procedimento per accertare le presunte violazioni di Israele degli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio delle Nazioni Unite del 1948[1], in relazione ai gravi fatti che stanno interessando la popolazione civile colpita nella Striscia di Gaza.
PERCHÉ IL SUDAFRICA HA ADITO LA CORTE
Il primo interrogativo che ci si potrebbe porre attiene alla legittimazione del Sudafrica a presentare tale istanza, dal momento che tale Paese non risulta essere stato direttamente leso dalle predette violazioni.
Da un punto di vista politico, una spiegazione si riviene nelle ragioni storiche che avevano portato ad una intensa collaborazione militare e di sicurezza tra Israele e il Sudafrica nel periodo dell’apartheid degli anni Settanta e Ottanta e da cui derivò, in seguito, la dichiarazione di Mandela che la lotta dei sudafricani contro la segregazione razziale non si sarebbe conclusa finché anche quella dei palestinesi non avesse avuto un epilogo positivo.
Da un punto di vista giuridico, invece, la legittimazione e l’interesse ad agire del Sudafrica sussistono perché entrambi gli Stati sono Parti della medesima Convenzione. Quindi, generando tale trattato internazionale degli obblighi erga omnes partes di rispetto delle disposizioni in esso contenute, ogni Stato Parte che rilevi la violazione di una previsione della Convenzione può lamentare tale inadempimento davanti all’organo giudicante.
Ma vi è di più: con riferimento al divieto di genocidio, essendo esso ritenuto un principio di ius cogens (diritto cogente), dal momento che identifica un valore fondamentale dell’ordinamento giuridico internazionale di cui tutti devono garantire il rispetto, allora esso genera un obbligo erga omnes di rispetto, pertanto, in caso di violazione, tutta la comunità internazionale può sentirsi legittimata a chiederne l’accertamento e la conseguente condanna dello Stato violatore.
LA POSIZIONE DEL SUDAFRICA
Nel caso di specie, poi, il Sudafrica non si è limitato a chiedere l’accertamento della violazione delle disposizioni della Convenzione in parola, con la conseguente condanna di Israele, ma ha anche avanzato la richiesta, ai sensi dell’art. 41 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia e degli artt. 73, 74 e 75 del regolamento della medesima, di adozione di misure provvisorie tese a «proteggere da ulteriori, gravi e irreparabili danni i diritti del popolo palestinese ai sensi della Convenzione sul genocidio» e di «garantire il rispetto da parte di Israele dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio di non commettere genocidio e di prevenire e punire tale crimine».
In sostanza, le richieste si sono sostanziate in: a) una richiesta di sospensione delle operazioni militari e di totale cessate il-fuoco; b) l’adozione di ogni misura ragionevole tesa a punire e a prevenire condotte genocide e a prevenire l’eliminazione degli elementi di prova circa quanto avvenuto nel contesto del conflitto incorso; c) il miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti di Gaza, permettendo l’ingresso nella Striscia degli aiuti umanitari; d) la disponibilità ad accogliere Commissioni d’inchiesta con mandato internazionale per agevolare l’accertamento dei fatti e le ricognizioni e d) la realizzazione di un rapporto da parte di Israele – entro una settimana dall’intimazione con ordinanza da parte della Corte – sull’attuazione di tali misure.
LA TESI DI ISRAELE
Nelle sue controdeduzioni, Israele ha, invece, sostenuto che il massacro subito il 7 ottobre scorso – ritenuto il peggiore dai tempi della Shoah – sarebbe il casus belli che avrebbe giustificato come necessaria la guerra difensiva contro Hamas. Le atrocità di tale gruppo terroristico giustificherebbero, quindi, l’esercizio del diritto legittimo di autotutela individuale e legittima difesa sancito dall’art. 51 dalla Carta delle Nazioni Unite.
Quindi, il duplice obiettivo militare dell’esercito israeliano sarebbe stato quello di estirpare la minaccia vitale per gli israeliani posta dai militanti di Hamas e di liberare i circa 136 ostaggi ancora detenuti nell’enclave devastata dal conflitto. Secondo questa tesi se si dovesse parlare di atti di genocidio, occorrerebbe considerare quelli subiti dai cittadini israeliani, che hanno dovuto affrontare sofferenze tragiche e strazianti durante gli scontri di questo periodo, come è emerso anche da testimonianze portate all’attenzione dei giudici della Corte circa le pratiche di tortura compiute dai combattenti di Hamas su intere famiglie israeliane – non risparmiando nemmeno i bambini – e di saccheggiamento delle loro abitazioni.
COSA DEVE ACCERTARE LA CORTE
Occorre puntualizzare che, per decidere sulla concessione di tali misure, la Corte dovrà accertare la presenza dei seguenti requisiti: i) la sussistenza di una giurisdizione prima facie; ii) l’esistenza di un legame tra i diritti di cui si lamenta la violazione e le misure cautelari richieste; iii) il rischio di pregiudizio grave e irreparabile; iv) la necessità d’intervenire d’urgenza e v) la plausibilità della configurazione del crimine di genocidio (criterio introdotto dopo la sentenza della Corte nel caso Belgio c. Senegal del 2009).
Un accertamento, quest’ultimo, che atterrà più compiutamente al merito della vicenda, ma che già in questa fase propedeutica si prospetta di difficile individuazione.
Questo perché, nonostante le numerose atrocità che stanno avvenendo nella Striscia di Gaza siano ormai ampiamente documentate, verificare se si tratti effettivamente di atti di genocidio richiede che si accerti il dolo specifico insieme agli atti contestati dal Sudafrica. Ciò significa che occorre dimostrare non soltanto che sia avvenuto il massacro di un popolo o di parte di esso, ma che chi l’ha commesso volesse distruggere quel popolo in quanto tale.
Il Sudafrica, nel suo ricorso, ha inteso dimostrare la plausibilità della commissione di tale crimine, nella fattispecie di incitamento diretto e pubblico a commettere il genocidio, attraverso l’allegazione delle dichiarazioni del primo ministro di Israele, del ministro della Difesa, di parlamentari ed esponenti politici di maggioranza da cui emergeva la necessità di radere al suolo Gaza, distruggendo le città e deportando altrove i palestinesi per ricolonizzare il territorio della Striscia. Secondo il Sudafrica queste affermazioni avrebbero creato un clima favorevole all’incitamento al genocidio che, di fatto, ha influito sul comportamento diverso dei soldati sul campo.
Di contro, Israele ha sostenuto che accogliere l’istanza di misure provvisorie del Sudafrica significherebbe negargli la capacità di adempiere ai propri obblighi di protezione nei confronti della difesa dei cittadini israeliani, degli ostaggi e dei numerosi sfollati israeliani che non possono rientrare in sicurezza nelle loro case. In più, i legali di Israele hanno asserito che l’esercito israeliano avrebbe dimostrato, con le sue condotte, di agire in modo diametralmente opposto rispetto ad un intento genocida, limitando gli attacchi a personale e strutture militari e in modo proporzionato.
Gli sforzi di Israele per mitigare i danni durante le operazioni militari e per alleviare le sofferenze dei civili si sarebbero sostanziati in campagne informative senza precedenti e diffuse largamente sul territorio tese ad avvisare i civili del conflitto imminente.
Se per la sentenza di merito bisognerà attendere qualche anno, già il prossimo mese potremo riscontrare l’ordinanza con cui la Corte avrà deciso sulla concessione di tali misure d’urgenza: ordinanza, questa, che è vincolante in base all’articolo 41 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia come interpretato dalla stessa Corte dell’Aja.
ALTRI PROCEDIMENTI IN CORSO
Il contenzioso davanti alla corte dell’Aja va ad aggiungersi ad altre iniziative poste all’attenzione delle istituzioni giurisdizionali internazionali. Dei quesiti pervenuti alla stessa Corte Internazionale di Giustizia, ma stavolta dall’Assemblea Generale dell’Onu per mezzo della Risoluzione N. A/RES/77/247 adottata il 30 dicembre 2022, attendono di ricevere un parere consultivo sulle «pratiche israeliane che incidono sui diritti umani del popolo palestinese nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est». Le udienze pubbliche degli Stati e delle Organizzazioni che vorranno intervenire sono previste per il 19 febbraio 2024.
In più, davanti alla Corte Penale Internazionale – che giudica i crimini di guerra individuali e non dipende dal sistema delle Nazioni Unite – sono giunti numerosi referrals presentati da realtà diverse sia israeliane che palestinesi, per chiedere al Procuratore Generale di svolgere indagini sui fatti del 7 ottobre e periodo successivo.
Numerose sono, quindi, le iniziative tese ad acclarare la verità e a ristabilire la giustizia e l’auspicio è che queste possano condurre alla riconciliazione dei popoli e alla convinta determinazione di una tanto agognata soluzione di convivenza pacifica tra i due Stati.
[1] Israele, infatti, è Stato parte della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, avendo ratificato detto trattato in data 9 marzo 1950. Il Sudafrica, invece, ha aderito alla convenzione il 10 dicembre 1998.
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