Gaza, casa mia
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Ripenso alla Guerra dei 6 giorni, manifestazione all’epoca dello strapotere israeliano nella regione mediorientale. Avevo 10 anni, cominciavo a scrivere, tutto mi interessava. Avevo seguito con passione gli eventi, sostanzialmente grazie alla radio, alla televisione soprattutto al giornale che mio padre portava a casa. Un’informazione analogica che mi aveva dato l’impressione di aver vissuto coi soldati israeliani e con le popolazioni palestinesi un conflitto che aveva lasciato il mondo a bocca aperta. La mia “compartecipazione” alla guerra era stata resa possibile dalle tante notizie che mi erano giunte al cervello e che avevano fatto lavorare a pieno regime la mia immaginazione. Avevo l’impressione che fossi stato a casa di una famiglia palestinese.
A partire dal 7 ottobre 2023, mi sono ritrovato a vivere un’altra guerra mediorientale, quella di Gaza. Ho subito come tutti un’incredibile profusione di immagini, di documenti audiovisivi, bombardamenti, lacrime, testimonianze in diretta. Molte, moltissime immagini ma, in fondo, poche notizie e poco approfondite, almeno finché rimanevo attaccato agli schermi, non solo della tv ma anche del computer e del telefonino. Le immagini mi hanno suscitato emozioni su emozioni, indignazione, sdegno, rabbia, sentimenti di impotenza, ho avuto l’impressione di essere entrato anche questa volta nella casa dei palestinesi. Ma, a qualche mese di distanza, mi sono accorto che qualcosa non quadrava: le case dei palestinesi della Guerra dei 6 giorni le avevo ancora perfettamente nella memoria, a mezzo secolo di distanza: quelle case non erano più uscite dai miei meandri cerebrali.
Rivedevo e rivedo ancora i volti dei membri di una famiglia che non avevo mai visto, né in foto né in televisione, ma che un reporter di guerra aveva raccontato in uno dei suoi articoli straordinariamente evocativi. Parlava di chiodi che sorreggevano i vestiti di quei palestinesi, che non avevano armadi. Ricordo il vecchio nonno che giocava con le dita della nipotina ferita, mentre tutt’attorno piangevano i membri della famiglia, in silenzio. Ricordo come ieri, e come se avessi visto la scena con i miei occhi, il soldato israeliano che aveva poi appiccato il fuoco a quella stamberga.
Sull’ultima guerra tra Israele e Hamas, non riesco invece a ricordare una sola casa, una sola stanza, una sola lacrima, anche se ne ho viste in quantità industriale. Le interminabili collezioni di immagini di quest’ultima guerra mi hanno sì colpito, e ho avuto l’impressione di essere entrato a casa dei palestinesi e delle famiglie degli ostaggi israeliani, ho sì visto macerie e case sventrate, ma ho immagazzinato troppe di queste scene per poter ricordarne anche una sola, limpidamente.
Il fatto è che le immagini – come argomentavano Roland Barthes e Susan Sontag tra gli altri − danno l’illusione della conoscenza, ma se non sono accompagnate da riflessioni e notizie approfondite, come quelle che leggevo sui giornali all’epoca della Guerra dei sei giorni, non si fissano nella memoria e in un certo senso non entrano nel circuito della nostra immaginazione. Dopo il 7 ottobre ho provato partecipazione e compartecipazione, ma con la memoria corta. La coscienza della gravità di quanto accaduto a Gaza mi è venuta piuttosto da alcune telefonate – rigorosamente senza immagini, perché bisognava risparmiare la residua energia delle batterie del telefonino del mio interlocutore − con un giovane amico di Gaza, piuttosto che dalle valanghe di immagini che sono passate davanti al mio sguardo un po’ inebetito.
Ci indigniamo più per le parole di Trump sulla Riviera di Gaza che per le reali sofferenze dei gazawi. Anche questo è uno dei paradossi dell’Infosfera. Eppure, chi vuole informarsi sul serio, sulla rete può trovare un’infinità di notizie, spunti e riflessioni. Basta volerlo. Basta non soccombere all’idea di sapere tutto perché «ho visto». No, la vista non basta per conoscere.
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