Gandhi Smirtis Tees January Marg
In queste cinque parole, un pezzo di storia dell’India
Tees January (trenta gennaio in italiano) è il giorno in cui Gandhi fu ucciso e a quella data è stata intitolata la strada (Marg) dove si trova il luogo del martirio, oggi chiamato Gandhi Smirtis, ma noto anche come Birla House, come era conosciuta negli anni in cui vi abitava Gandhi quando risiedeva a Delhi.
Gandhi Smirtis è un luogo sacro. Appena si entra nel giardino dove si trova la casa in tipico stile coloniale della Nuova Delhi inglese, non si può non percepire che qui si sono vissuti momenti che hanno fatto la storia dell’India. L’interno della palazzina è arredata con foto del Mahatma o Bapu (papà), come amavano chiamarlo in tanti. Si ripercorrono le fasi più importanti di una vita che ha avuto pochi eguali nella storia dell’umanità.
Si prende coscienza che Gandhi non era solo un uomo che mirava all’indipendenza del suo Paese, è stato un apostolo della pace e della fraternità universale. Lo aveva detto lui stesso: «La mia missione non è semplicemente la fratellanza della gente che abita in India, anche se questo mi assorbe praticamente tutto il tempo e le energie. Spero che, attraverso l’ottenimento della libertà dell’India, si realizzi e si operi anche la missione della fratellanza dell’uomo».
All’esterno, sul retro, un prato ben pettinato, affiancato da due camminamenti lastricati della tipica kota stone, la pietra del deserto del Rajasthan con la quale sono costruiti gli edifici più significativi di Delhi. Su quella esterna si può camminare, quella interna invece, è la via che aveva coperto il Mahatma, quel tardo pomeriggio del 30 gennaio.
E’ un cammino scandito dalle impronte delle chappals, tipiche ciabatte del sub-continente indiano. Aveva appena congedato il nuovo ministro degli Interni dell’India, Sardar Patel, e si stava avviando alla preghiera serale. Arrivato quasi al termine del cammino, al fondo del giardino, fu colpito dagli spari che lo uccisero, ai quali rispose con due parole rimaste famose: «Ehi Ram!», «Oh Dio!».
Incredibile! Lo aveva predetto qualche tempo prima, come se sapesse leggere i segni dei tempi nel modo che solo i profeti sanno fare. «La pallottola di un assassino potrebbe mettere fine alla mia vita. Le darei il benvenuto. Ma ciò che importa è morire nell’atto di compiere il proprio dovere fino all’ultimo respiro. Non ho paura di morire nella mia missione se questo è parte del mio destino».
Sul prato, bisogna togliersi le scarpe, come si suole fare dappertutto in India quando si entra nei luoghi sacri (templi, chiese, moschee). Su un piccolo capitello che porta le ultime parole del Mahatma – «Ehi Ram!» – arde una fiamma perenne. Impossibile non ricordare Raj Ghat, il mausoleo di Gandhi, dove il suo corpo venne cremato. Lì le stesse parole sono scritte una grande lastra di granito nero sulla quale arde la fiamma.
Queste fiamme perenni richiamano l’idea della luce, un’immagine che torna costantemente a ricordare Gandhi. Celebre l’annuncio del Primo Ministro J.Nehru alla nazione indiana, la sera del 30 gennaio 1948: «Una luce si è spenta sulle nostre vite». Gli aveva fatto eco il giorno successivo il New York Times che sentenziò: «Sta ora alla mano inesorabile della storia scrivere il resto».
Parole profetiche anche queste perché Gandhi, resta una luce per il miliardo e più degli indiani che hanno aperto il nuovo millennio, ma la sua figura rimane anche enigmatica come quella di tutti i grandi carismatici della storia dell’umanità. Anche questo lo aveva previsto, probabilmente cosciente della complessità della sua vita: «Una volta che questi occhi saranno chiusi per sempre ed il mio corpo sarà consegnato alla fiamme, ci sarà tutto il tempo per pronunciare un verdetto sulla mia opera».
Oggi Gandhi sembra dimenticato nel suo Paese, dove il fondamentalismo indù pare, spesso, avere il sopravvento, e la globalizzazione sembra irridere i suoi ideali del sarvodhaya (benessere per tutti). Ma questo non è prova di un fallimento. Sono fatti, che sembrano piuttosto riecheggiare la profezia di un altro grande del suo tempo, Albert Einstein, che, commentandone la morte, disse: «Le generazioni avvenire, forse, non potranno credere che uno come lui possa davvero aver camminato, un giorno, sulle strade di questo mondo».
Un paradosso di enigma e luce, che ha segnato la storia dell’umanità: c’è stato un “prima di Gandhi” ed un “dopo Gandhi”, come, ancora una volta, aveva previsto. «Ho una fede implicita nella mia missione. Se un giorno avrà successo – ed avrà successo, non potrà non averlo – allora la storia riconoscerà questo movimento come un’opera disegnata per comporre in unità tutta la gente del mondo, come parti diverse di un uno»