Gandhi e la lettura del testo sacro

Ieri ricorreva l'anniversario della morte del Mahatma. Sia lui che il suo assassino condividevano la meditazione del Gita, libro fondamentale della religione indù. Eppure le interpretazioni erano diverse: l'uno lo leggeva in modo settario ed esclusivista, l'altro ne faceva strumento di dialogo con le altre religioni e arma per la non violenza
Murales dedicato a Gandhi

Il 30 gennaio 1948, verso il tramonto di una giornata tipica dell’inverno di Nuova Delhi, il Mahatma Gandhi si stava recando, camminando ormai a fatica, verso il luogo di preghiera nel giardino di Birla House, dove risiedeva tutte le volte che si fermava nella capitale della neo-repubblica indiana ed è qui che lo colse la morte. Oggi questi suoi ultimi passi possono essere ripercorsi su orme di cemento disegnate sul terreno.

A poco meno di metà del percorso fra la casa ed il luogo della preghiera, Nathuram Godse, un uomo dello stato del Maharashtra legato al nascente fondamentalismo indù – più precisamente al movimento del Mahasabha – sbucò dalla folla che si accalcava attorno alla Grande Anima dovunque andasse. Esplose dei colpi di pistola. “Hè Ram!” “Oh Dio”, furono le sole parole, le sue ultime, del Mahatma. Poche ore dopo, Jawaharlal Nehru, il Primo ministro, dava l’annuncio in un radio messaggio ad una nazione attonita: “Amici e compagni, la luce è partita dalle nostre vite e c'è oscurità dappertutto, e non so bene cosa dirvi o come dirvelo. Il nostro beneamato leader Bapu, come lo chiamavamo, il padre della nazione, non c'è più. Forse mi sbaglio a dirlo, nondimeno non lo vedremo più come l'abbiamo visto durante questi anni, non correremo più da lui per un consiglio o per cercare consolazione e questo è un terribile colpo, non solo per me ma per milioni e milioni in questa nazione”. Sono passati 67 anni da quella serata che chiuse il sipario di questa che da molti è stata definita la vita più straordinaria del XX secolo.

Gandhi è scomparso, ma resta l’epiteto della non-violenza come stile di vita e metodo di risposta alla violenza. Una non-violenza tutt’altro che passiva e supina, anzi assolutamente creativa. Sono stati scritti libri e libri sulle diverse iniziative che il leader indù è riuscito a realizzare per rispondere alla colonizzazione inglese, senza mai nutrire il minimo rancore verso gli uomini che avevano occupato il suo Paese. Lottò con grande dignità, impegno, creatività e, allo stesso tempo con immenso rispetto, per l’indipendenza dell’India, senza mai una parola che tradisse odio, reazione, rabbia, rancore contro i colonizzatori.

Come oggi fa notare un interessante ‘fondo’ apparso sul quotidiano di Chennai, The Hindu, sia Gandhi che il suo assassino avevano letto e conoscevano bene il Gita, il libro sacro per milioni di indù, che il Mahatma considerava come la propria madre. E’ una riflessione interessante perché sia il martire che l’assassino hanno fondato le rispettive vite e i loro atti finali su questo testo sacro. Si tratta, nel momento in cui viviamo oggi, di uno spunto di riflessione molto stimolante. La lettura del testo sacro ha, infatti, offerto ad entrambi la radice e la motivazione per le rispettive scelte di vita: la non-violenza fino al martirio per uno e l’atto violento per eccellenza – il togliere la vita a un essere un umano – all’altro. E’ quanto vediamo realizzarsi oggi: la violenza in nome della religione o di un testo sacro che viene brandito a giustificazione di stragi e morte. Lo stesso testo, anche quello che ispira i pensieri più profondi che toccano l’anima ed il cuore dell’uomo, del suo rapporto con il creatore e padre, può, dunque, essere letto in modo diverso, possiamo dire, opposto. Per Gandhi il Bhagavad Gita “mostra come possa essere applicato il principio eterno di conquistare l’odio con l’amore e la menzogna con la verità”.

Non tutti, anche fra coloro che con Gandhi lottarono per l’indipendenza dell’India, concordavano con la lettura del Padre della patria’. Per molti di questi uomini, che restano accanto al Mahatma dei giganti dell’India, il Gita chiamava all’azione sia politica che religiosa, giustificando l’anti-colonialismo violento sempre rifiutato dal Mahatma.

Lo stesso fondamentalismo indù, nascente ancora ai tempi della morte di Gandhi, trova la sua giustificazione in una certa lettura di alcune pagine del testo sacro, che conduce a giustificare la politica ideologica dell’Hindutva, che ha come base l’idea di un’India solo per gli indù, a scapito di coloro che professano altri credo e seguono altre tradizioni religiose. Godse, nel corso del processo, che lo portò alla condanna a morte per impiccagione, spesso citò il Gita. Qui emergono chiaramente le due prospettive di approccio al testo sacro. Da una parte quella della compassione, della misericordia e dell’amore che stanno alla base delle diverse tradizioni religiose, come dimostra la presenza della Regola d’oro in ognuna di esse – “Fa agli altri quanto desideri che loro facciano a te” o “Non fare agli altri quanto non desideri che loro facciano a te”. Dall’altra, quella che Gandhi definiva la lettura dell’esclusione e del bigottismo che giustifica l’odio.

Gandhi affermava che “non c’è nulla di nulla di esclusivo nel Gita che lo faccia un vangelo solo per i brahmini o gli indù. Arricchito del colore e della luce tipica dell’atmosfera indiana, [il Gita] deve restare chiaramente affascinante per l’indù, ma il cuore del suo insegnamento non dovrebbe essere meno affascinante per coloro che non sono indù., come accade per la Bibbia ed il Corano. Anch’essi non dovrebbero essere meno attraenti per un non-cristiano e un non-musulmano”. Il valore di questa affermazione non sta tanto nella verità teologica che potrebbe anche essere oggetto di dibattito, ma nella necessità che ciascun uomo di buona volontà colga la dimensione spirituale e la ricchezza del testo sacro dell’altro e, inoltre, offra una lettura del proprio che non escluda nessuno di coloro che credono diversamente.

E’ stimolante notare come da più parti, proprio all’interno di una lettura indù del pensiero di Gandhi, si riconosca come il Mahatma sia stato positivamente motivato dal contatto con il cristianesimo e che, nonostante la mancanza di coerenza da parte dei cristiani, ne abbia assorbito alcuni valori fondamentali. Spesso il padre dell’India era definito dai radicali indù come ‘Mohammad Gandhi’ per il suo spirito di fratellanza nei confronti dei musulmani e ‘Cristiano nascosto’ per il suo rispetto per Cristo. Bhikku Parekh sostiene che Gandhi integrò diversi aspetti del cristianesimo nella forma di induismo riformato che propose alla gente del suo tempo. In particolare la sua idea di amore e sofferenza, ispirati dall’immagine del crocefisso, rappresentano la fonte di alcune delle sue passioni e idee più profonde e ricorrenti. E’ bene ricordare che l’unica immagine sulle pareti nude della sua capanna all’ashram di Sevagram dove visse a lungo era quella proprio di un crocefisso.

A fronte di questo atteggiamento del Mahatma verso il proprio testo sacro e quelli di altre fedi, c’è la chiave di lettura del suo assassino, settaria ed esclusivista e, soprattutto, capace di giustificare la violenza in nome di una religione. Proprio questa sembra essere quella che rivendica maggior successo oggi nel mondo, a causa delle varie forme di fondamentalismo. E tutte le fedi, compresa quella cristiana hanno forma di questo tipo al suo interno. Nel giorno del suo martirio, forse, Gandhi ci aiuta a comprendere quale è la chiave che potrebbe aiutare l’umanità a continuare il suo cammino verso un mondo dove tutti possano vivere come uomini e donne veramente liberi.

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