Gabriele Dell’Otto e Dante
Parliamo del libro Inferno, davvero splendido, e della collaborazione con Nembrini. È vera la frase «Se tu commenti tutta la Divina Commedia, io la illustro tutta»?
Si, l’ho detto durante un pranzo volante a Firenze: treno in arrivo per lui e per me. Anno 2014, un po’ di tempo dopo ci sarebbe stata la mostra di Lucca. Avevo realizzato anche il poster, e per la prima volta sarebbe venuto Franco. «Sono anni che vorrei mettere un piedino a Lucca – mi aveva confessato – perché ci sono molti giovani». Per lui il contatto con le nuove generazioni è importante.
Un modo per avere uno sguardo sul presente…
Franco ha sempre uno sguardo di bene su ogni luogo che frequenta e incontro che fa.
Dunque, la frase?
Ero rimasto elettrizzato dalle parole di Franco su Dante. Avevo disegnato alcune tavole che potessero accompagnare le sue parole. Una decina, a cui dare lustro con un’introduzione di Franco. Un portfolio, diciamo. Più lo coinvolgevo, più lui si lasciava coinvolgere. Quel giorno gli dissi: «Franco, se tu avessi commentato più canti, io avrei avuto modo di spaziare di più».
E lui?
Mi disse che in passato glielo avevano chiesto, ma non se ne era fatto nulla. Mangiammo, e verso il caffè mi chiese: «Secondo te potremmo farlo?». «Cosa?». «Quello che mi stavi dicendo prima». Mi spaventai: era stata una battuta, la mia, ma lui me lo chiese tre volte prima che ci salutassimo.
Avevi toccato qualcosa…
Un desiderio antico. Mi salutò così: «Secondo me i tempi sono maturi, forse è giunto il momento di fare questa cosa». Ed ecco la frase: «Se tu commenti tutti e cento i canti io ti faccio un’illustrazione a canto».
La nascita di un’amicizia, anche…
Lì dentro c’era già tutto il nostro rapporto: io gli faccio le domande e lui mi fornisce il click giusto. Io gli chiedo: «Cosa metti a fuoco in questo canto? Qual è il nesso con la vita reale di ognuno di noi?» Dalla sua risposta capisco cosa illustrare.
E quando lui vede il tuo lavoro?
Dice che dal mio lavoro riesce a imparare qualcosa di nuovo su Dante.
Un circolo virtuoso…
Lo chiama così.
Nembrini dice che tu cerchi di far vedere al lettore ciò che Dante vede…
Nel 2014, prima di Lucca, Franco venne a trovarmi nel mio studio a Roma. Ero molto emozionato. Avevo già realizzato alcuni dipinti. Stavo lavorando sul canto di Ulisse da una decina di giorni, ma più vedevo quella tavola, più avvertivo che sapeva di copertina de I fantastici quattro: la torcia umana.
Cosa era accaduto?
Che non riuscivo a spegnere il pilota automatico. Stava prevalendo, per Dante, la mia professionalità tecnica come illustratore di supereroi. Stavo dimostrando quanto fossi bravo, invece di cercare l’interpretazione e la restituzione di Dante. Mi è capitato con Cerbero e Lucifero: li avevo quasi finiti, ma non funzionavano. Non si percepivano le sensazioni di angoscia dell’inferno. Tutto troppo bello, ammiccante.
Con Ulisse che hai fatto?
Mentre dipingevo riascoltavo in cuffia gli incontri di Nembrini su Dante e, per mio piacere, anche le puntate televisive di Benigni, quasi a cercare una triangolazione creativa. Questo doppio ascolto mi aiutava a capire cosa illustrare. La sera prima dell’arrivo di Franco, angosciato da quella torcia umana, presi un pennello a setola larga e vi misi tre colori a corpo: bianco, arancio e giallo. Feci due fiamme. Era tardi. «La lascio asciugare – pensai – e domani vedo come è venuta». Il giorno dopo arrivò Franco.
Che disse?
«Questo è Ulisse? Sono due le cose: o sei un folle o sei un visionario coraggioso. Tutto mi aspettavo di trovare tranne questo». Io replicai: «Se tu dici che hai incontrato Dante per farlo conoscere alle persone, per mostrare il suo viaggio a ognuno di noi, il lettore deve vedere quello che Dante vede, non quello che Dante ascolta e intuisce». Lui chiosò: «Sei un genio».
Uno scambio costante, il vostro…
Per il canto su Paolo e Francesca avevo immaginato alcune scene, che però aveva già fatto il Dorè, il quale si doveva rapportare con persone che non sapevano leggere. Io invece avevo il compito di legarmi alla complessità del nostro presente. Su Paolo e Francesca Franco mi raccontò un aneddoto riguardante lo svenimento di Dante: un parallelo tra il canto di Paolo e Francesca e quello del Purgatorio in cui il Poeta sviene di nuovo dopo che Beatrice si arrabbia con lui. Franco notò un rapporto strettissimo tra i due canti e le parole usate nelle due terzine intenerenti all’avvenimento in questione. Da lì ho avuto la chiave per dipingere.
Non è la prima opera di questo tipo. Che valore ha, oggi, secondo te?
A questa domanda Franco risponde con ironia: «Chiunque l’avesse fatto in passato, non aveva me!» Più seriamente credo che vi siano riflessioni utili per riflettere sull’oggi e sulla vita.
Mi ricordi l’aneddoto della testa che gira?
Il lavoro con Franco è prima di tutto parlare. Io dico una cosa, lui ne ricava un concetto, lo elabora e fa scattare in me qualcos’altro. Io realizzo uno schizzo iniziale che però non sempre garantisce di vedere tutto. È capitato nel canto degli avari e dei prodighi: avevo costruito il messaggio spirituale, ma avevo sbagliato un dettaglio. Il fulcro centrale del canto è che entrambe le tipologie dei dannati si incrociano, ed entrambe portano un masso enorme sul petto. Avevo lavorato sul massimo sforzo fisico, abbassando il mento del personaggio di sinistra, che era di profilo, dolorante, urlante, teso, tutto concentrato a portare il masso. Il personaggio di destra, invece, aveva la testa girata verso l’altro dannato, perché Dante esplicita che la loro dannazione non è solo il peso portato, ma che incrociandosi, sia l’avaro che il prodigo si insultano a vicenda. E questa relazione di odio doveva essere esplicitata nel quadro. Franco disse che sarebbe stato bello se ci fosse stata una relazione tra i due. Io risposi: «Hai detto bene, sarebbe stato». Però, lentamente questa cosa ha lavorato dentro di me, e quando Franco ha rivisto il quadro ha detto: «Oh, ha girato la testa».
Come definiresti il rapporto di Nembrini con Dante?
La sua salvezza: Dante gli ha illuminato la strada, gli ha dato consapevolezza e luce. È vero quello che scrive Alessandro D’Avenia nella bellissima prefazione: «Non leggete Dante, fatevi leggere da lui».
Cosa l’ha colpito maggiormente di Dante, in questo viaggio?
Dante è un po’ ognuno di noi, intercetta la vita che in momenti diversi tutti ci troviamo ad affrontare. Lui fa un lavoro enorme per arrivare ai risultati che raggiunge alla fine del viaggio. Franco sottolinea sempre l’importanza della Vita Nova per capire la Divina Commedia: un libro incredibile, che parla dell’amore di Dante per Beatrice. Tutto questo entusiasmo crolla a un certo punto per la morte dell’amata. Ognuno di noi rischia di fare i suoi errori, visto che Dante non comprese l’essere mezzo di Beatrice, attraverso cui conoscere l’amore di Dio. Beatrice, infatti, quando lui la incontra, lo rimprovera, gli ricorda che lui era arrivato a un punto molto alto, ma poi si è distratto, ha perso il senso di tutto. Questo ci fa riflettere su ciò che non siamo in grado di vedere. Dante mi ha aiutato a capire gli errori che posso fare e la strada per la felicità su questa terra. La vita va accolta com’è, non possiamo controllare tutto, non tutto dipende da noi. I progetti nella nostra vita non sono sempre nostri.
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