G7 – Inclusione e disabilità. Grandezza alla prova dei fatti

Assisi ha visto riunirsi i ministri del G7 impegnati sul tema dell'inclusione. Era presente anche il cantautore Alberto Bertoli, figlio di Pierangelo, che ci ha lasciato le sue impressioni sulla validità dell'evento

Si è cobcluso il 16 ottobre ad Assisi la tre giorni “G7 – inclusione e disabilità”. Titolo altisonante ma chiaro, dato che reale è stata la convocazione rivolta dalla ministra per la Disabilità del governo italiano, Alessandra Locatelli, ai colleghi ministri dei Paesi componenti il gruppo dei 7 “grandi”: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Usa. Una convocazione allargata a significative presenze di altri “Paesi ospiti” quali la Tunisia, il Kenia, il Cile, il Vietnam e il Sud Africa.

Non lontano da Perugia, nella cornice del Casello di Solfagnano, l’atto finale, con la sottoscrizione della “Carta di Solfagnano” contenente le 8 priorità – inclusione, accessibilità, vita indipendente, lavoro, nuove tecnologie, sport, servizi di comunità, prevenzione – sulle quali i Paesi firmatari si impegnano ad intervenire.

Un avvio col botto il primo giorno ad Assisi, in una kermesse partecipata da oltre cento associazioni – vivacissime, con i loro ragazzi – accolte nella doppia spianata della Basilica di San Francesco e lungo la via San Francesco, con gli stand tematici, le band musicali, lo street food di tutti i gusti.

La kermesse poteva funzionare da consolante messaggio – “quanto siamo bravi!” – se fosse rimasta silenziata la domanda pratica, che il vescovo di Perugia, mons. Ivan Maffeis, ha messo da subito sul tappeto:

«E noi, rispetto alle persone con disabilità, su che cosa siamo disposti a mettere, non solo la voce ma anche l’impegno? Quali barriere sentiamo di dover demolire, perché l’inclusione sia qualcosa di più della possibilità – ancora non sempre scontata – di entrare in una chiesa o in un ufficio?

É più facile togliere qualche gradino che eliminare le pietre culturali che impediscono a tanti la partecipazione alla vita sociale, lavorativa, ecclesiale e politica. Ignoranza, distrazione e mancanza di cura alzano un ponte levatoio, che priva l’intera comunità di sguardi, di talenti e di punti di forza».

Sì, perché la questione ha un suo banco di prova, quotidiano, nella sperimentata e reale reciproca appartenenza di tutti alla vita sociale, civile, professionale, ludica, politica.

Le solenni parole di principi che tracciano il cammino sono fondamentali. Non bastano. Addirittura si prestano all’equivoco. Pensiamo alla parola “inclusione” che esiste se esiste un recinto, “clausus” ossia chiuso, fatto di gente “normale” che sta dentro e di gente che sta fuori e che – benevolmente – viene fatta entrare, ammessa, “inclusa”.

Ottimo parlare di inclusione, per opporsi al movimento contrario, duro a morire, dell’esclusione. Ci mancherebbe! Tuttavia il recinto rimane. Le categorie, le barriere, mentali prima che fisiche, resistono coriacee e non sono messe in discussione.

Dopo la rivoluzionaria lettera-testamento di Sammy Basso, che tanto ha toccato le corde intime del Paese, sarebbe ora che usassimo per chiunque, a partire da noi stessi, la sua auto-definizione: “unico”! Io sono unico, così sono stato fatto per te, per voi. Tu sei unico, per me, per noi. Tutti per tutti siamo esseri “unici”. Che brivido! Sono irripetibile fra miliardi, sono un impasto di abilità e disabilità che dialogano dentro questo limitato corpo psicofisico, grazie al quale posso dire “io”.

È lo sguardo che cambia la realtà. È lo sguardo che rende applicabili le norme e i principi che le ispirano, anche gli auspici più arditi, come quello dell’articolo 3 della Costituzione che declina il principio di uguaglianza e ne esprime il fine: la partecipazione di tutti alla vita del Paese. Tutti!

Ad Assisi era presente, con le sue canzoni, Alberto Bertoli, sì, il figlio di Pierangelo, come il papà cantante affermato. Se il padre dovette pazientare fino al 1991, fin quando la magia del grande artista che era bucò lo schermo e fece cadere anche a Sanremo il tabù di mostrarlo in carrozzina, Alberto non è da meno e accetta di commentare schiettamente per noi [Città Nuova] le giornate di Assisi:

D. Perché sei venuto a questo G7?

Sono venuto invitato da CGIL in quanto interessato ed esperto [è logopedista] di disabilità. Sono venuto soprattutto per vedere se ci fossero delle cose propositive per gli anni che verranno. Mio malgrado non è stato così.

D. Perché? Cosa ti rammarica?

Devo premettere che ho sicuramente apprezzato il fatto che qui si sono riuniti rappresentanti ad alto livello delle 7 più grandi potenze del mondo per parlare di un tema molto importante, quello della disabilità. Anche il solo fatto di trovarsi e ragionarci insieme è una cosa assolutamente positiva. Se vogliamo un mondo globalizzato, dobbiamo volerlo per tutti. Purtroppo – e qui ad Assisi in modo evidente – il tema della disabilità viene ancora legato in qualche modo strutturalmente al mondo cattolico, ma con un lato pietistico, di paternalismo che non fa altro che peggiorare la situazione. L’iniziativa è del governo; perché la collocazione ad Assisi? Un fraintendimento, un ammiccamento? Il primo a parlare è stato un frate. Verrebbe da dire: naturale, siamo ad Assisi! Ma, allora, per essere chiari, per dire che il tema riguarda i diritti e non la carità, che è di tutti e per tutti, perché il primo a parlare non è stato un disabile? O perché non fare questo G7 in un posto non connotato religiosamente? La fede muove gli uomini dall’interno, non crea recinti verso l’esterno.

D. Assisi, dunque, avrebbe rafforzato lo stereotipo del legame fra disabilità e carità. A qualcuno è balzato agli occhi anche un altro stereotipo, quello del legame fra disabilità e “cura al femminile”. Nella foto ufficiale a Solfagnano sul palco sono saliti i 12 rappresentanti dei governi invitati e, di 12 rappresentanti, 8 erano donne. Eppure di diritti si è molto parlato: cosa non va?

Vedo una grossa ipocrisia perché per fare questo tipo di manifestazioni si spendono tanti soldi, nello stesso momento in cui tutti, specie chi lavora sul campo, abbiamo modo di constatare la vaghezza della gestione del “Fondo unico per l’inclusione di persone con disabilità” e la riduzione drastica delle cifre della spesa pubblica in questo settore. Non si può pensare di costruire contesti migliori con fondi aleatori, non si può pensare di assistere più persone e di farlo meglio con meno soldi, non si può pensare di rendere proficui questi impegni astratti se non abbiamo i mezzi per farlo.

D. La cornice di Assisi non è stata in questo senso una bella vetrina e un’opportunità?

La cornice di Assisi non è di per sé inopportuna perché è una città bellissima e piena di ispirazione spirituale, ma noi stiamo parlando di persone che attendono risposte, norme chiare, stanziamenti certi per progettare il loro futuro prossimo in autonomia. Il rischio di far passare le persone con disabilità come un problema, come dei “poverini” da aiutare, è altissimo. Le persone con disabilità hanno dignità, hanno talenti, ricchezze e percorsi di cui andare fieri e che devono rivendicare. La società stessa ha il diritto e il dovere di rivendicare la loro presenza attiva, di cittadini a pieno titolo.

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