Futuro e benessere psicologico

Diritto al lutto (per i parenti). Diritto alla crescita (per i bambini). Paura del domani. Burnout del personale sanitario e mancanza di psicologi.

Le limitazioni conseguenti al virus hanno ridotto le occasioni di socialità a cominciare da quelle con le persone più care, privandoci della dimensione vitale della relazionalità. Un’indagine dell’Istituto Piepoli, ha evidenziato un incremento dei livelli di disagio psicologico in 7 italiani su 10, in modo particolare nelle donne e nelle persone tra 35 e i 54 anni. Secondo uno studio Cnr, 8 persone su 10 sono preoccupate per il futuro. Queste informazioni sottolineano la necessità di porre ai primi posti della fase 2 il benessere psicologico dei cittadini, sia in termini di cura che di prevenzione, con attenzione specifica alle situazioni di fragilità: poveri, immigrati, anziani, persone sole o con disabilità, malati.

Diritto al lutto
In molti casi, come a Bergamo o in Val Seriana, un’intera comunità ha perso non solo dei concittadini, ma anche parte della propria memoria storica. Ma è possibile elaborare una perdita senza i riti e i simboli religiosi, sociali e culturali che hanno sempre sostenuto, anche attraverso la vicinanza fisica, chi ha perso un parente o un amico? Secondo la Psicologia del Lutto, è possibile elaborare l’assenza, e accettarla, solo a partire da una presenza – ad esempio il corpo –, che mostri quanto è accaduto. Ma nelle settimane di emergenza i parenti non potevano far visita alle salme e, alcune volte, neppure rientrare in possesso dei loro effetti personali. Esiste un diritto al lutto? La creatività di sacerdoti, comunità e semplici persone ha provato a colmare questo vuoto con momenti di lutto collettivo (suono delle campane, momenti di silenzio cittadino, rosari familiari attraverso zoom), ma probabilmente non basta. La fase 2 dovrà essere il tempo nel quale ridare un nome a chi non c’è più, recuperarne la biografia e restituire alla famiglia e alla comunità la possibilità di un ultimo adeguato congedo. Altrimenti tutto si ridurrebbe ai numeri sterili emessi dal bollettino giornaliero della Protezione civile.

Impatto sul personale sanitario
Nelle regioni più colpite gli operatori sanitari hanno affrontato carichi e ritmi di lavoro estenuanti dal punto di vista fisico ed emotivo, con la paura di essere contagiati o di contagiare i propri familiari, la responsabilità di decisioni cliniche ed etiche, il sostituirsi ai familiari nell’accudimento dei pazienti spesso fino agli ultimi istanti, le telefonate per comunicare i decessi. Quello che prima rappresentava un’eccezione è diventata la routine, favorendo l’insorgere di disturbi come il burnout. È il trauma di chi deve guardare l’inguardabile, ed è chiamato a fare appello alla parte più resistente e nobile di sé, quella che ha portato a scegliere la professione medica. I segni psicologici di questa esperienza non svaniranno tanto presto. La comunità professionale degli psicologi fornisce un supporto agli operatori impegnati contro l’emergenza, spesso in forma volontaria, ma si tratta di iniziative che evidenziano la cronica carenza di professionisti psicologi all’interno del Sistema sanitario nazionale. Nell’80% delle Aziende sanitarie manca un coordinamento dei professionisti psicologi, e gli standard ospedalieri (Decreto 70/15) non considerano la presenza di servizi psicologici nelle strutture. Questo pone un problema di equità sociale: solo chi può permettersi di pagare ha accesso alle prestazioni psicologiche.

Metafora della guerra e mito dell’eroe
La narrazione in queste settimane ha spesso rappresentato gli operatori sanitari come eroi in guerra, descrizione imprecisa e poco utile a comprendere e affrontare gli effetti dell’emergenza. Distinguere tra chi è “in prima linea” e chi non lo è, ad esempio, può rimandare l’idea che c’è chi è chiamato attivamente a “combattere” da solo il virus e chi deve restare sul divano in attesa che il “nemico venga sconfitto”. Riprendendo le parole di papa Francesco, sarebbe più opportuno riconoscerci «tutti fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari»: chi è impegnato nella cura dei malati, chi nel far rispettare l’ordine pubblico, chi è a casa ad accudire i bambini, chi porta la spesa all’anziano solo. Tutti giocano un ruolo in questa esperienza.
Allo stesso modo, anche il mito dell’eroe offre un’immagine distorta e spesso fastidiosa degli stessi operatori sanitari. L’immagine di invincibilità nasconde l’umanità di chi in questa esperienza ha dovuto fare i conti con vulnerabilità, impotenza e fallimento. La figura dell’eroe, inoltre, distoglie lo sguardo da una professionalità costruita faticosamente con gli anni, che non ha bisogno di super poteri ma di passione, competenza, dispositivi di protezione, presidi medici, strutture e personale adeguati, investimenti programmati e politiche sanitarie lungimiranti. L’eroe appartiene al mito e al fumetto, gli operatori sanitari – e tutti noi – all’umanità.

Impatto sui bambini
La routine giornaliera dei bambini in età prescolare (0-6 anni) è improvvisamente cambiata, non potendo più abbracciare nonni, cugini, zii, amici e maestre. È stato necessario ripensare spazi, giochi, tempi, relazioni. È fondamentale rassicurarli, ricordandosi che le emozioni e l’atteggiamento di noi adulti rappresentano una bussola per i più piccoli, il nostro benessere promuove il loro benessere. Per farlo può essere utile filtrare le informazioni dei media, perché il linguaggio è minaccioso; più efficace è ritagliarsi spazi di dialogo, per costruire un senso di ciò che accade e accogliere pensieri ed emozioni, magari inserendo nella giornata videochiamate con amici, maestre, cugini e nonni.
I primi 6 anni sono fondamentali per lo sviluppo fisico, cognitivo e affettivo, processo non lineare che beneficia di “finestre di opportunità”. Quante finestre abbiamo perso in 6 mesi di chiusura delle scuole? Anche in questo caso esiste un “diritto alla crescita”? Si tratta di rimettere al centro della fase 2 i bisogni di bambini e ragazzi, il loro benessere psicologico e relazionale.

Ripensare il futuro
La pandemia ha fatto cadere molte certezze, ci ha costretti a riconsiderare noi stessi, il nostro modo di vivere, le nostre priorità. Ma resta un punto fermo da cui ripartire: la speranza. È un potente attivatore di processi di cambiamento, che ci permette di ripensare, progettare e costruire il futuro. Quella che stiamo vivendo è un’esperienza per molti drammatica, ma non è senza via di uscita. Può rappresentare, come dice papa Francesco, un’occasione per porre al centro il benessere delle persone, delle relazioni, delle comunità.

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