Fuori pericolo

Finalmente fuori dal coma. Dal reparto di Terapia intensiva a quello di Medicina generale. Segno che il peggio è passato. Nelle pagine de “La caduta delle farfalle” (Città Nuova, 2016) Alessandro Mazzochel racconta l’uscita dal doloroso tunnel della bulimia di Wendy
La caduta delle farfalle_Città Nuova 2016

Domenica, 0.17. Sono appena tornato dall’ospedale. Hai voluto che ti stessi accanto fino a tardi questa sera, guardando la partita dei Mondiali. A mezzogiorno ho ri­percorso, ancora una volta, il corridoio dei passi perduti della Terapia intensiva. Oltre ai passi, ho perduto anche pensieri, chili, nervi, ore. L’importante era non perdere te. Stavi mangiando una zuppa, seduta in poltrona, la televi­sione poco discostata e l’infermiera con quei bei lunghi capelli neri e lo sguardo tagliente e rassicurante.

 

«Visto che so usare il cucchiaio da sola?», hai subito sot­tolineato. «Così ora posso tornare a casa», hai continuato.

«Devi avere ancora qualche giorno di pazienza», mi anticipò l’infermiera.

 

«In compenso oggi possiamo farti vedere il cane», ti dissi. I giorni precedenti i dottori mi avevano autorizzato a realizzare quell’incontro. Ti lasciai mangiare e partii per la tua vecchia casa. Il cane era rimasto lì fin dal primo giorno. Tua sorella e tuo padre mi aprirono la porta ma fu il batuffolo di pelo bianco e marrone a scaraventarsi fra i piedi. Era ingrassato e i suoi occhioni marroni come sfere di bronzo mi sorridevano uno sguardo spaesato e sorpreso.

 

Poi mi avvinghiò la vertigine di essere tornato di nuovo a casa tua. Il nido di pietra dove hai praticato a te stessa i tuoi mali, dove ero costretto a rimanere in salotto mentre ti chiudevi in bagno per ore. Ogni sera, dopo che tornavi dal lavoro, ogni sabato e domenica, ogni istante di tempo libero la malattia, il legame disperato con il tuo piccolo mondo familiare sepolto dentro alla bara di tua mamma, ti costringeva a tornare a casa, a chiuderti in bagno, a vomitare, a trascorrere ore in esercizi fisici, a nascondermi tutto questo, a inventarti ogni volta una scusa diversa, più ipocrita della precedente.

 

Queste righe sono per te ma stanno diventando anche uno sfogo per me. Uno sfogo? Come si possono riprodurre attraverso delle righe d’inchiostro, attraverso queste parole che si alternano indifferenti le une alle altre, le lunghe attese di quei mesi, la disperazione della scoperta della realtà, la solitudine di trovarsi in un deserto dove tutte le porte era­no chiuse? Abbiamo vissuto sotto una cappa di assurdità grigia e nebbiosa, un cunicolo stretto e insaziabile, senza via d’uscita.

 

Dopo un quarto d’ora io e tua sorella eravamo già nel parcheggio dell’ospedale. La lasciai all’ingresso della struttura e io venni a prenderti con una sedia a rotelle.

«Non è più la Terapia intensiva di una volta», i medi­ci furono ancora una volta gentilissimi. Ti coprirono con dei camici verdi e ci accompagnarono fino alla porta del reparto.

[…]

 

Nemmeno il tempo di tornare in reparto e hai voluto usare di nuovo la sedia a rotelle, per andare al bar dell’ospedale. Ti sei seduta vicino a uno di quei tavolini di plastica a forma di rombo, in fondo alla sala, di fronte alle pareti di vetro e hai voluto che ordinassi toast e gelato per entrambi. Il prosciutto e il formaggio fuso sono andati giù in un boccone.

 

«Ho la pancia gonfia», mi hai detto subito dopo.

Quante volte ho sentito ripetere questa frase? Sicura­mente più delle altre due parole: ti amo.

«Non ricominciamo con questa storia».

«Ma mi sento gonfia e grassa». Era l’inizio di un’altra abbuffata? Avrei dovuto parlarne con i dottori.

«Guarda che mi alzo e me ne vado».

Ti riportai in reparto, senza parlarti. La rabbia e l’idea di ritornare in quell’orrore mi ammutolirono.

Scesi a comprare un enigmistico per te e un paio di gior­nali per me, essendomi dimenticato i libri di tesi a casa.

«La trasferiamo questa sera – ci comunicò il giovane dottore dagli occhiali a goccia – in Medicina generale».

 

Non avrei più attraversato quel corridoio, non avrem­mo più avuto una grande stanza tutta per noi, sotto il con­trollo continuo degli infermieri, il rapporto familiare che si era creato, la cura e l’attenzione di cui eri stata oggetto. Non aveva più senso tenerti in Rianimazione e Terapia in­tensiva, ovvio. Iniziavi a parlare in modo più fluido, senza quasi più ciancicare le parole, i farmaci diminuivano di dosaggio e la tua memoria rimaneva più lucida: esclusi gli ultimi giorni prima dell’arresto cardiaco, il pin del tuo cellulare e l’acquisto della nuova automobile. Salutai uno a uno ogni dottore e ogni assistente che sono stati per te una seconda famiglia. Abbiamo promesso di ritornare quando starai in piedi da sola e con qualche chilo in più.

 

Da “La caduta delle farfalle” (Città Nuova) di Alessandro Mazzochel, pp. 120; € 8,00

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