Fuocoammare rappresenterà l’Italia a Hollywood
Giusto così. Magari non basterà a vincere l’Oscar, ma Fuocoammare di Gianfranco Rosi, già Orso d’Oro all’ultimo Festival di Berlino, è il meglio che potessimo presentare oltre l’atlantico. È il film italiano del 2016 dal maggior valore espressivo, e costruisce, attraverso la potenza delle immagini, un ritratto di noi italiani che è bello senza essere da cartolina.
È ascolto delle persone, è relazione umana, è lungo tempo speso a parlare, per capire e poi raccontare. È cinema del reale, senza attori, vero ogni centimetro e respiro. È una specie di meglio italianità, è esempio di preziosa civiltà raccolto con pazienza (d’autore) in un punto tanto piccolo e lontano di Paese da essere per certi versi astratto, poco nazionale. Era doveroso così: portare a Hollywood, come candidato italiano agli Oscar, il piccolo film su Lampedusa.
Perché è questo il tema più moderno e urgente da trattare, quello più internazionale da esportare. Abbiamo avuto in sorte la minuta Isola nella nostra terra? Dobbiamo vivere il compito nel modo più nobile. Ospitano la vita da anni, i lampedusani, mostra e spiega il regista. Venti, forse più. Non fosse altro perché “da bravi pescatori accolgono tutto ciò che viene dal mare”. Allora un film potente – che è non solo, ma è anche, un film su di loro –, può stanare quella voglia di donarci che spesso teniamo nei cassetti più remoti dell’anima. E va visto e sostenuto al massimo, perché qui non si tratta più soltanto di premiare l’arte, ma di cogliere l’occasione offerta dalla bellezza di un film per riflettere – di più, meglio! -sul male grande del nostro tempo. Non c’è paragone, in questo senso, col resto della proposta italiana.
La commissione di selezione riunitasi oggi a Roma – 26 settembre 2016 – non deve avere faticato più di tanto per tirare su dal mazzo Fuocoammare. Produttori, distributori e giornalisti, insieme a Paolo Sorrentino (uno che di Oscar se ne intende) e allo scrittore Sandro Veronesi, hanno scartato due commedie interessanti: Gli ultimi saranno gli ultimi di Massimiliano Bruno (sull’Italia di oggi come Paese difficile per chi ci è nato, soprattutto per i giovani) e Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese (esplosione di attuale mostruosità attraverso lo schema teatrale della cena tra amici e lo strumento del telefonino, qui detonatore di mille mali mai curati).
C’era poi l’esordio più interessante dell’anno, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (primo importante film italiano sui supereroi). Fortissimo, divertente, romanissimo eppure esportabile facilmente in giro per il mondo. C’era anche Suburra di Stefano Sollima, su mafia capitale ma molto, troppo di genere per essere preso sul serio, e due film in qualche modo su Napoli, Invisibili di Edoardo De Angelis e Pericle il nero di Stefano Mordini. Anche loro con aspetti curiosi, scelte intelligenti, spunti interessanti, momenti validi, ma senza la compattezza e l’energia di Fuocoammare, senza la sua dolorosa verità, senza la sua aspra poesia.
Senza la sua riflessione su un tempo della pace e della normalità ormai solo illusione, senza quel sano rapporto tra uomo e natura ancora silenziosamente ma sempre più disperatamente cercato dagli abitanti di Lampedusa nel film. In costante contrasto col tempo che attraversiamo, nel perenne stato d’emergenza e di tragedia in cui nuotiamo, qui visti da dentro, senza pornografia, senza fretta, con tanta riflessione prima di accendere la telecamera. In bocca al lupo, Fuocoammare.