Fuoco su di me

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Abbiamo incontrato il regista Lamberto Lambertini a Napoli, sul set di Fuoco su di me, che ha ricevuto la qualifica di film di interesse culturale nazionale. Regista teatrale, scrittore, è alla sua seconda prova cinematografica dopo Vrindavan Film Studios, il primo film italiano girato completamente in India. Abbiamo potuto realizzarlo – spiega – perché un amico indiano, il grande regista Goutam Ghose, ha messo a nostra disposizione un suo cast, la sua troupe ed ha persino recitato per noi nel film. Cosa conserva di questa esperienza dell’India? Mentre noi occidentali siamo molto concettuali, lì ho riscoperto la lezione antica che nel fare c’è l’intuizione, la riflessione, per cui il fare diventa il pensiero più spirituale. Quando con le mani fai qualcosa è come se tu stessi pregando. Per questo ho desiderato fortemente che qualche attore di lì potesse partecipare al film. Un desiderio che si è avverato? Sì, l’attrice che ha interpretato Vrindavan, Sonali Kulkarni, è la protagonista del film, liberamente ispirato al romanzo Graziella di Lamartine. Si è creata subito un’intesa tra gli operatori della troupe e il cast degli attori, per cui si lavora bene. Quando c’è rispetto della professionalità di ciascuno, l’essere di nazionalità e di culture diverse arricchisce il progetto. Oltre a Sonali, a dare volto e voce a don Nicola è il grande attore egiziano Omar Sharif. Abbiamo un bravo attore ungherese, Zoltan Ratoti, nella parte di Murat, e sarà l’Orchestra sinfonica di Bucarest a curare le musiche del film. Eugenio è l’italiano Massimiliano Varrese. La storia è ambientata nel 1815. Sono gli ultimi giorni di Gioacchino Murat, re di Napoli, imprigionato dai Borboni, e la frase che dà il titolo al film è riferita proprio alla morte di Murat, che in certo modo diresse la sua esecuzione. Murat è don Nicola, nobile napoletano e nonno del giovane Eugenio, che scrive un suo diario su quei giorni. Ho cercato di salvare in maniera pregnante il personaggio della fanciulla, così ricco di interiorità, di bellezza e di purezza. Mi sembrava la donna ideale capace di suscitare in Eugenio quella maturazione umana e spirituale che lo fa uomo nel senso più alto del termine e lo induce a rifiutare la guerra. Nonostante imperversino nel cinema sensualità e sesso, ho conservato la storia in purezza così come Lamartine l’aveva scritta. Il film interesserà i giovani? La maturazione che avviene in Eugenio è tipica di tanti giovani di oggi che rifiutano la violenza della guerra e scelgono ideali assoluti come l’amore e la pace. Il personaggio di Graziella rappresenta non la purezza sciocca della popolanella, ma quell’incredibile, inarrivabile cultura fatta di millenni di sapienza e di gesti, di riti anche familiari e di autentica religiosità. Religiosità che il mondo colto ha spesso perduto e che può ritrovare nell’amore per l’umanità. Seguendo il lavoro sul set, si rimane colpiti dalla sua attenzione soprattutto al rapporto con gli attori. Dico sempre a me stesso: punta ad amare le persone; ogni espressione del viso non deve essere casuale e lascia che la verità di quella persona venga fuori proprio amandola. Devo dire che l’esperienza teatrale con la Compagnia di Concetta e Peppe Barra, nonostante tutto, era così. Con gli attori e gli operatori, oltre ad un rapporto professionale, c’era un rapporto di affetto; e questo mi permetteva di scrivere in quegli anni la mia storia, che coincideva con quella del mio teatro. Lamartine ha affermato spesso che la famiglia umana è una, che bisogna rifiutare la guerra, abolire la pena di morte, vivere la fraternità… Se c’è fraternità, scambio sincero, allora nascono idee nuovissime. E l’umanità ha prodotto queste idee quando la scintilla dello scambio è avvenuta tra filosofie, religioni, culture. Se si vive nella dimensione del dono reciproco, a sera, dopo una giornata apparentemente come tante, vengono quelle due o tre idee creative, che sono il nostro futuro. Bisogna però credere in questa dimensione della reciprocità e viverla. Sì, ma non avendo fretta. C’è nella nostra vita un diritto alla indeterminatezza soprattutto quando si è giovani e si vuole cercare e fare esperienza. Il protagonista maschile di Fuoco su di me è un giovane che ha amato Napoleone ma non vuole fare le rivoluzioni nel sangue, e rifiuta questa determinazione violenta della storia. È in qualche modo quello che si ripete anche oggi in tanti nostri giovani. Nel film c’è questo invito all’abbandono nel presente, non nel senso degli hippy che se ne vanno dalla società civile, ma nel senso di liberarsi dai preconcetti per spaziare intorno a noi e cogliere il positivo ovunque. Con questo nuovo film conservi lo stesso entusiasmo che ha caratterizzato il primo? Assolutamente. C’è qualcosa che lega molto il modo di essere della gente indiana al mondo di Napoli. Penso, per esempio, alla purezza del sorriso, a questo scambio vitale di affetti, attraverso gesti, sguardi, contatti anche fisici. In India ho incontrato il sorriso, profondo, vero, intenso in Madre Teresa, nei santi, ma anche tra gli uomini comuni. Nel sorriso è racchiuso il modo di rapportarsi con gli altri.

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