Fukushima, Bengasi e Lampedusa

La geografia tracciata dai media ha una forte propensione alla dimenticanza. Il pericolo corso dal Giappone non può nascondere l’emergenza araba
Fukushima

Siamo tutti col fiato sospeso nell’attesa dell’oracolo – che speriamo ancora non sia definitivamente catastrofico – delle fusioni di uranio arricchito minacciate a Fukushima. La paura di un nemico invisibile creato dall’uomo stesso non è rassicurante, per niente, sembra toccare le corde più riposte del nostro essere (ha una dimensione ontologica, direbbero i filosofi, o kenotica, direbbero i teologi).

 

Una cosa è certa: la terribile sequenza terremoto-maremoto-emergenza nucleare ci sta facendo sentire più solidali a livello planetario. È evidente, le emergenze ambientali, militari ed economiche non possono essere più considerate confinate entro frontiere sempre più permeabili. È un bene, questo, non tanto per arrivare ad evocare un’unica autorità mondiale, quanto per ipotizzare un coordinamento reale delle politiche delle varie autorità nazionali e sovranazionali.

 

I mass media sono uno dei fattori principali della mondializzazione di fatto del pianeta: i filmati e le photo gallery dei siti di mezzo mondo ci portano dentro la tragedia, le web cam puntate sui sei reattori nucleari di Fukushima ci mostrano in diretta i drammi giapponesi. È un bene, ci sentiamo certamente più solidali coi nostri fratelli del Sol levante. In un bar romano, stamani non si parlava solo della Roma e della Lazio, e nemmeno solo dell’impresa dell’Inter, ma di Giappone, del calciatore interista Nagatomo che a Monaco ha esposto la bandiera giapponese con la scritta: «Non sarete mai soli».

 

Ma i media gridano, evocano lo scandalo, sbattono in prima pagina il mostro, che stavolta si chiama incubo atomico. Chi si occupa più di Gheddafi che riconquista la Libia spazzando i sogni di libertà dei suoi abitanti? Chi si occupa dell’intervento delle truppe saudite in Bahrein per sedare le sommosse ed evitare anche nella penisola arabica un effetto domino? Chi si occupa delle proteste in Siria, in Algeria, del caos che ancora regna in Tunisia, del re del Marocco che cerca di democraticizzare un po’ il suo Paese, dello Yemen che continua a protestare, del Sudan che a fatica e versando sangue va verso la separazione? Persino gli amori leciti e illeciti dei politici nostrani (che pubblica miseria!) spingono le vicende arabe lontano dalle prime pagine dei giornali.

 

Siamo interdipendenti, i fatti danno ragione a quanto dicevano i grandi profeti della fraternità: Gandhi, Kennedy, Giovanni Paolo II, la Lubich. Ma la fraternità obbliga a sentirsi fratelli, ad avere memoria della sofferenza altrui. Che il nostro abbraccio tenga assieme giapponesi, libici e immigrati nordafricani che sbarcano a Lampedusa!

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