Fuggo dalla guerra e ne trovo un’altra

Le instabilità in Sudan, Algeria e Libia viste dagli occhi di migranti che fuggivano un conflitto e si sono ritrovati minacciati da un altro conflitto

Leggevo recentemente un reportage di un quotidiano libanese che raccontava di un gruppo di profughi sudanesi, provenienti dal vecchio dramma del Darfour, che in attesa di trovare un passaggio per l’Italia, si è trovato in mezzo al fuoco tra milizie di Haftar ed esercito “ufficiale” di al-Serraj a Tripoli. Leggendo i giornali europei, invece, la sola cosa che sembra interessare italiani, francesi e spagnoli è la minaccia di “invasione” da parte delle centinaia di migliaia di profughi che starebbero per prendere le barche verso la sponda Nord del Mediterraneo approfittando dell’attuale conflitto tra signori di Tripoli e di Bengasi. Minaccia, d’altronde, sbandierata dagli stessi combattenti, che cercano così di convincere gli europei ad appoggiare concretamente il proprio campo, lasciando immaginare una possibile apertura dei porti libici a chiunque voglia salpare verso l’Italia, approfittando anche del bel tempo che sta tornando finalmente sul Canale di Sicilia.

La condizione dei profughi del Darfur in Libia non è un’eccezione, come si può constatare navigando un po’ sul web della solidarietà e dell’impegno civile. Decine di migliaia di rifugiati, addirittura centinaia di migliaia secondo i dati dell’organismo Onu per i rifugiati, l’Unhcr, che ha comunque evidenti difficoltà a stabilire cifre esatte, sono nelle stesse condizioni nei tre Paesi nominati che attualmente sono sottoposti a tensioni interne. Sudan e Algeria vivono situazioni in fondo simili, per la partenza forzata dalla folla dei vecchi presidenti – in Algeria il malato Bouteflika, in Sudan l’immarcescibile al Bashir –, per le manifestazioni di piazza sempre più incalzanti che hanno richiesto non solo la partenza dei vecchi capi di Stato al potere da troppo tempo (rispettivamente da 20 e 26 anni), ma anche una gestione più democratica e più corretta dei rispettivi Paesi. In realtà in entrambi i casi si è messo di mezzo l’esercito, che ha sì mandato in pensione gli ormai ingombranti presidenti, ma avviando forme di transizione mascherate che servono solo a perpetuare il potere delle attuali élite. Diverso il caso della Libia, in cui è in atto una vera e propria guerra civile, con scontri di vaste dimensioni, in cui le milizie tribali si muovono a geometrie mobili, a seconda delle situazioni contingenti, con lo scopo principale di mantenere il potere su una tribù o in un territorio preciso. Finora i morti sarebbero quasi 300 e i “migranti interni forzati” dagli scontri poco meno di 30 mila.

Uno degli effetti principali della crisi dei regimi al potere in questi tre Paesi, è l’allentamento dei controlli interni su coloro che presidiano le immense frontiere desertiche dei tre Paesi e sulle infinite piccole milizie dal confine che, tra malavita e terrorismo jihadista, imperversano nel deserto. Stanno aumentando i casi di esazioni, di ruberie, di violenze sessuali, di morti per inedia e per sete o semplicemente perché i “passatori” intascano il soldo del trasbordo trans-sahariano e poi abbandonano in mezzo al deserto questa gente su mezzi impossibilitati a continuare il loro cammino. Non corridoi umanitari, quindi, ma corridoi disumani verso il nulla. La stessa Algeria, che sembrava esente da eccessi da parte delle sue guardie di frontiera e dei predoni che scorrazzano nel deserto, di fronte all’aumento dei transiti per Algeri ed Orano provocato dalla maggior difficoltà di utilizzare la rotta libica da parte dei migranti per la presenza di contingenti militari francesi (e anche italiani) in Niger, conosce eccessi da brividi: di nuovo violenze, ruberie, stupri, assassinii, abbandoni nelle dune. L’incertezza politica nella capitale aumenta la discrezionalità degli interventi nella regione sahariana.

E noi giriamo lo sguardo, anche perché i nostri media, che non curano per provincialismo le pagine internazionali, non s’interessano di quanto resta confinato in Sudan, in Algeria e in Libia. «Affari loro». È triste che lo si dica in epoca di globalizzazione, con lo sguardo miope di chi non capisce che alla fine i conti bisognerà farli tornare.

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