Friuli, quarant’anni fa il terremoto
«Guarda che questa casa qui ha resistito al terremoto!». È stata una delle prime cose che mi sono sentita dire una volta arrivata a Udine, nel vedere la casa in cui sarei andata ad abitare, e che, a onor del vero, sembrava un po’ vecchiotta. E in effetti era già lì quel 6 maggio 1976 in cui, in un minuto di scossa di magnitudo 6.4, persero la vita 989 persone e 45 mila rimasero senza un tetto.
Altre quattro scosse di magnitudo poco inferiore si verificarono nel mese di settembre, danneggiando i primi lavori di ricostruzione già intrapresi. Contando che 18 mila case crollarono e altre 75 mila risultarono danneggiate, costringendo oltre 100 mila persone a sfollare sulla costa o a vivere in tende e roulottes, è chiaro che l’aver retto alla scossa non è poco. E non tanto a Udine città, dove l’impatto fu più limitato, ma nella zona dell’Alto Friuli e in parte della Carnia, dove cittadine come Gemona e Venzone vennero letteralmente rase al suolo. Un ricordo ancora vivissimo nell’animo di chi c’era, che l’ha passato anche a chi nel 1976 ancora non era nato: tanto che persino lo striscione esibito dai tifosi dell’Udinese domenica scorsa recitava: «Tremò la terra che distrusse le case, a morire quel giorno furono in tanti, ma noi siamo friulani e andammo avanti».
Già, perché uno dei più grandi orgogli dei friulani – e che tendenzialmente i friulani citano quando vogliono sottolineare che sono tipi tosti, cosa del resto innegabile – è la rapidità con cui la ricostruzione venne portata avanti: grazie ai tantissimi volontari giunti da tutta Italia e anche dall’estero, ai militari di leva, alla Chiesa friulana che si attivò attraverso la Caritas e coinvolse ben 80 diocesi negli aiuti, ad associazioni e movimenti ecclesiali – tra cui gli stessi Focolari –, e ad un’azione rapida ed efficace delle istituzioni – sì, succede anche in Italia –, tutti gli sfollati risultavano rientrati quattro anni più tardi, e la ricostruzione definitivamente completata in meno di dieci.
Cittadine come Venzone vennero ricostruite così com’erano prima, usando per le mura medievali e per il duomo le stesse pietre che erano cadute a terra, con tanto di linea rossa lungo le pareti a segnalare fino a dove il muro era rimasto in piedi; e tra le “creature” del terremoto si annovera anche l’Università di Udine, fondata nel 1978 nell’ambito degli interventi per il rilancio della Regione, grazie, tra l’altro, ad una raccolta di firme (ben 125 mila) tra la popolazione. Eredità dell’epoca è anche la particolare sensibilità verso il volontariato: il Friuli Venezia Giulia è, dopo il Trentino e l’Alto Adige, la Regione italiana con il maggior numero di volontari (1.327 ogni 10 mila abitanti con punte di 1.428 in provincia di Udine, dati Istat), ed è Regione di punta a livello nazionale per quanto riguarda la Protezione Civile.
Le iniziative per il quarantesimo anniversario non si contano, sparse su tutto il territorio – sono una quarantina solo quelle promosse dall’Università: mostre fotografiche, conferenze, spettacoli, proiezioni, messe in ricordo, fino alla visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Udine e nelle zone allora colpite. E l’eco del tutto è arrivato fino a Roma, con la presentazione alla Camera del documentario Resurî 1976-2016, che la presidente Laura Boldrini ha auspicato venga visto da tanti e soprattutto nelle scuole perché «dimostra quanto la sinergia tra le persone, le istituzioni, i militari e i volontari abbia dato risultati straordinari».
Questi giorni sono però prima di tutto l’occasione per ricordare e raccontare, anche semplicemente seduti davanti a una tazza di tè: da chi, quasi ironicamente, racconta di come tra le macerie ha conosciuto il futuro marito o moglie arrivati magari da lontano come volontari; a chi, come Fabiana, le vicende dell’epoca le ha vissute in prima persona nel gruppo di coordinamento dei soccorsi allestito dal Movimento dei Focolari. «Arrivavano volontari da tutta Italia e anche dall’estero – ricorda – e l’importanza della loro presenza non si è esaurita al lavoro di ricostruzione propriamente detto: l’opera più preziosa è stata, forse, quella di ascoltare le tante persone che avevano perso dei familiari, stare vicino a chi non aveva più nulla. E per questo vorrei tanto ringraziare tutti quei volontari che magari, nella concitazione di quei momenti, non ho mai avuto modo di ringraziare davvero».
Rosina, che all’epoca lavorava come infermiera all’ospedale di Udine, avrebbe dovuto finire il suo turno proprio alle 21, l’ora della scossa: «Ma mi sono fermata lì fino al giorno dopo, era il caos – racconta –. I malati, anche quelli che non avrebbero potuto alzarsi, cercavano di scappare; e i feriti che arrivavano erano così tanti che non riuscivamo nemmeno a registrarli, venivano identificati semplicemente con il numero del letto. Però nei giorni successivi ho visto una gara di solidarietà, in cui oltre ai muri fisici crollavano anche i muri dei rapporti tra le persone». L’anniversario non è comunque soltanto ricordo: alcune iniziative sono volte ad attualizzare il patrimonio di conoscenze acquisite allora, per fare il punto su come è cambiata la gestione delle emergenze da allora ad oggi, in un territorio che rimane pur sempre a rischio sismico.
Oggi, custode della memoria del terremoto è in primo luogo il museo Tiere Motus di Venzone: un percorso fotografico e documentale che si snoda su più sale e ripercorre tutta la storia, dalla scossa alla ricostruzione, finendo con un simulatore del sisma grazie alla realtà virtuale. La sala finale è stata chiamata “L’Orcolat”, espressione con cui tutt’oggi i friulani chiamano il sisma: così infatti si chiama una figura della tradizione popolare, che vive rinchiusa nelle montagne della Carnia, ed agitandosi provoca i terremoti. Una curiosa unione tra tecnologie di nuova generazione e storie dal sapore antico.