Freud oggi

Le idee del padre della psicoanalisi, considerate “antiquate” alla fine del XX secolo, stanno tornando di moda

Ottanta anni fa, a 83 anni, il 3 settembre 1939, moriva a Londra Sigmund Freud. Aveva rivoluzionato la concezione che l’uomo possedeva di sé, grazie alla scoperta che i processi psichici inconsci influenzano il nostro modo di sentire, pensare e agire. Ad esempio, aveva scoperto che l’attività principale dell’inconscio è raggiungere un equilibrio tra piacere e realtà, e che tutti sono condizionati da potenti moti pulsionali. Diceva: «L’Io non è padrone a casa sua». In fondo, la vera “grandezza” di Freud è stata proprio quella di superare l’illusione che l’uomo sia arbitro razionale e consapevole della propria vita.

Nel 1926 all’età di 70 anni, così rispondeva a un famoso giornalista: «Settant’anni mi hanno insegnato ad accettare la vita con allegra umiltà». A quell’epoca era già affetto da un tumore alla mascella destra, che lo porterà alla morte tra sofferenze inaudite, dopo 16 operazioni chirurgiche, numerose dolorose infiammazioni e una fastidiosa protesi metallica. Il tutto, però, affrontato con un grande spirito di adattamento, tant’è che diceva: «Continuo a preferire l’esistenza all’estinzione… Alla fine, la morte ci sembra meno intollerabile dei tanti affanni che ci portiamo dietro… La vecchiaia con tutti i suoi ovvi svantaggi viene per tutti… Non mi ribello all’ordine universale. Dopo tutto ho vissuto più di 70 anni. Ho avuto abbastanza da mangiare. Ho goduto di molte cose: la compagnia di mia moglie, i miei figli, i tramonti. Ho osservato le piante crescere in primavera. Ogni tanto ho stretto una mano amica. Una o due volte ho incontrato un essere umano che quasi mi capiva. Cosa posso chiedere di più?».

Alla domanda su cosa pensasse di sé dopo la morte, chiariva: «Quello che succede dopo non mi importa. Non aspiro alla gloria postuma». E nel dare una carezza a un cespuglio fiorito, ribadiva: «Mi interessa più accarezzare adesso questo bocciolo, che quanto potrà succedermi dopo la morte». Incalzato dal giornalista che gli faceva notare come alcuni suoi allievi psicoanalisti rimanessero aggrappati ad ogni sua parola detta o scritta, Freud rispondeva: «La vita cambia, anche la psicoanalisi cambia. Non siamo che agli albori di una nuova scienza».

Non tutti, però, hanno considerato la psicoanalisi come una nuova scienza; ad esempio, Karl Popper riteneva che fosse “autoreferenziale”, e altri autori l’hanno valutata poco scientifica perché non utilizzerebbe metodi quantitativi e statistiche. Una pretesa assurda se si guarda all’essere umano nel suo intimo più profondo, là dove egli non è più solo un numero da educare o riadattare, ma un soggetto, con la sua parte di inconscio da riconoscere ed eventualmente curare. Quello della mente, come quello dell’amore e della fede, è uno di questi campi. Esige un’attenzione e un rispetto particolari, in grado di tener conto della dimensione di un “altrove”, che lo si chiami “inconscio”, “grande Altro”, “mistero”, o addirittura “Dio”, secondo lo psicoanalista Carl Jung, l’allievo più geniale di Freud.

Resta il fatto, storicamente parlando, che alla fine del secolo scorso tanti concetti freudiani sono stati considerati “antiquati”: i depressi sarebbero infelici solo perché vi è uno squilibrio nella chimica del loro cervello. La psico-farmacologia, però, non è riuscita a produrre una teoria alternativa della personalità, delle emozioni e della motivazione, un nuovo modello interpretativo di “che cosa ci fa funzionare”.

Invece oggi le neuroscienze stanno chiarendo i meccanismi a monte dei processi mentali descritti da Freud, a tal punto che attorno alla figura di Mark Solms si è costituita una disciplina scientifica, la neuro-psicoanalisi, di cui fanno parte famosi neuro-scienziati come Antonio Damasio, Eric Kandel, Joseph LeDoux, Vilayanur Ramachandran. Uno di questi, il biologo molecolare Eric Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000, ha detto che la psicoanalisi «è ancora la concezione della mente più coerente, e intellettualmente più soddisfacente». Utilizzando tecniche di imaging cerebrale, ha dimostrato visivamente come la psicoterapia influisca sul cervello in modo simile, se non superiore in numerosi casi, agli psicofarmaci, grazie alla “plasticità neuronale”, ovvero alla capacità dell’esperienza e del comportamento di formare nuovi neuroni e reti cerebrali.
Sempre a proposito di psicoterapia, in una lettera a Jung del 1906, Freud chiariva che la sua tecnica psicoanalitica era «in sostanza una cura mediante l’amore».

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