Frère Christian, ancora vivo a Tibhirine

Una lettera scritta da uno dei sette monaci uccisi durante la guerra civile. Destinatario: la comunità dei Focolari di Tlemcen.
uomini di dio

Mi è capitata tra le mani una lettera scritta da frère Christian, superiore dei padri trappisti di Tibhirine ai focolarini di Tlemcèn. Era il 3 dicembre 1994, il terrorismo stava esplodendo, e la vita dei cristiani era a rischio. Ci si interrogava su quel che si sarebbe dovuto fare. Anche la comunità locale dei focolarini ebbe uno scambio di opinioni con Chiara Lubich, che li aveva dapprima invitati a tornare in Italia. Cosa che poi nei fatti non avvenne, se non per un breve periodo, perché i focolarini fecero presente alla fondatrice dei Focolari quanto tale partenza sarebbe stata difficilmente comprensibile per tanti amici del posto. Chiara Lubich rispose allora: «Occorre restare». Il centro di Tlemcèn non fu mai veramente chiuso, così come quello di Algeri.

Scriveva così frère Christian ai quattro focolarini di Tlemcèn, due dei quali – Ulisse Caglioni e Riccardo Togni – sono ormai in Cielo: «La notizia è arrivata in questi giorni, senza poterla verificare. Ci sono molti falsi rumori. E noi siamo ora più isolati. Ma ecco che la notizia ci è confermata da fonti autorizzate. Si tratta della vostra partenza da Tlemcen. Ci hanno detto che Chiara “ha deciso”. Non oso crederlo. Tutti pensavamo che restaste il più a lungo possibile tra noi i testimoni d’una convivialità offerta, d’una condivisione di vita senza frontiere, d’una apertura familiare che permette al cuore di vibrare all’unisono al di là delle barriere dell’appartenenza religiosa. Avete fatto vostro il messaggio del Vangelo e avete scolpito profondamente questo messaggio tra noi. E noi gioiamo con voi di questo di più di umanità che il vostro carisma dava alla nostra chiesa. Era bello ritrovarsi nel vostro “focolare”. Molti monaci hanno potuto approfittare della vostra accoglienza quando passavano per andare a Fez (Marocco). A tutti è rimasto il gusto di… gustare ancora!».

«Ed è stato un vero sacrificio, questo mese, d’essere stati condannati all’aereo a causa della mancanza di treni e di strade sicure. È quindi una sofferenza profonda immaginare il “focolare” svuotato della sua anima. In questi tempi, noi abbiamo tutti bisogno di poter contare su questo “fuoco” tenuto vivo nella sala comune. Farà un po’ più freddo a Natale se voi non siete più là. Soprattutto fatelo ben capire a Chiara. E che vi lasci tornare! Le nostre vite sono nelle mani di Dio… e le nostre ragioni di restare si identificano con quelle che ci hanno permesso di vivere qui. Per voi, come per noi, la situazione non cambia nulla. Ancora grazie a ciascuno e tutta la nostra comunione fraterna di oggi e di sempre. Christian».

 

Christian tre mesi più tardi (il fatto avvenne la notte del 26 marzo 1996) è stato rapito con altri sei confratelli dagli integralisti. Il 21 maggio i terroristi hanno fatto trovare le loro teste decapitate. La loro storia è ora diventata di dominio pubblico grazie al film Uomini di Dio che sta avendo grande successo in tutt’Europa. Ci piace pubblicare anche una preghiera (il suo testamento) composta da frère Christian, che mostra il piccolo-grande eroismo dei monaci di Tibhirine:

 

«Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese… Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia.

 

Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro per quella che, forse, chiameranno “grazia del martirio”, il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.

 

Conosco il disprezzo con il quale si è giunti a circondare gli algerini globalmente presi. Conosco anche la caricatura dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con l’integralismo dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo, imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno frettolosamente trattato da ingenuo o idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente soddisfatta la mia più lancinante curiosità.

 

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutto della sua passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e malgrado tutto. In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e al centuplo, accordato come promesso! E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio dire questo grazie e questo “ad-Dio” con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch Allah!! Frère Christian».

I più letti della settimana

Digiunare per la pace

Ragazzi di strada, maestri di vita

La narrazione che cura e cambia il mondo

Chi non vuole la tregua a Gaza?

Un sorriso all’Istituto Tumori

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons