Il Franco Cacciatore alla Scala
Il Romanticismo è Sturm und Drang (tempesta e assalto), col gusto del macabro e dell’orrore, del satanico e del gotico, del misticismo e dell’infinito come le foreste dipinte da Friedrich. Ed è appunto tra le foreste che si svolgono i tre atti dell’opera “romantica” Der Freischutz di Weber, un lavoro volutamente non-italiano ed in tedesco – con dialoghi parlati -, con una idea centrale, cioè il contrasto tra il Bene e il Male e la vittoria del primo sul secondo.
I personaggi – il cacciatore Max, fidanzato di Agathe, ma spinto al male dal demoniaco rivale Kaspar – e la natura sono protagonisti che vivono lungo i tre atti alternativamente fra ombra e luce. L’ombra diventa forza panica della natura nella scena della Gola del lupo, la luce brilla nella figura di Agathe (la sua bellissima Scena ed Aria vagamente belliniana), nei cori popolari e nelle danze, mentre Max oscilla tra le due tensioni.
Weber, nel lavoro dato con successo a Berlino nel 1821- mentre Rossini furoreggiava sulle scene europee e Beethoven scriveva le sinfonie – è data purtroppo raramente in Italia. La si potè ascoltare anni addietro in forma concertistica all’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Dirigeva Myung-Whun Chung e fu una rivelazione. Rappresentato di recente al milanese Teatro alla Scala in un nuovo allestimento, il capolavoro di Weber è tornato approfondito, cesellato da una lettura ancor più magistrale: appassionata, profonda, misteriosamente bella.
La musica weberiana è affascinante: gioiosa nelle arie, delicata nei cori, lieve nei valzer, sinfonica nelle descrizioni naturali e orrorifica nei momenti cupi, con qualcosa di nero che dà i brividi. L’orchestra scaligera ha offerto un suono variegato, con toni paurosi (gli archi gravi e gli ottoni)e leggerezze aeree che tolgono lo scuro alla vicenda. Brillante invece nelle sezioni melodiose, e di melodia ce n’è parecchia: violini e legni l’hanno suonata luminosamente. Chung ha diretto con slancio, passione, anche il cast, fra cui spiccavano Julia Kleiter (Agathe) e Michael Konig (Max).
Se la parte musicale – orchestrale soprattutto – era decisamente di ottimo livello, la regia “elettrica” con tanto di tubi al neon di Matthias Hartmann, pur non disturbando troppo la musica, è apparsa forse troppo sintetica, anche se lo zigzagare delle luci, l’asciuttezza degli ambienti (foreste comprese) che facevano pensare a qualcosa tra Carrà ed Hopper, avevano un loro fascino.
Edizione comunque di notevole dignità e di alto livello musicale, da riproporre.