Francesco poeta di tutti noi Poeta di tutti noi
Quando muore, il 19 luglio 1374, lo trovano con il capo reclinato sul suo Virgilio, il codice del poeta amatissimo. Ha settant’anni – molti per l’epoca – ha viaggiato per tutta Europa, è stato letterato e diplomatico, amico dei potenti, ha ricevuto l’alloro poetico in Campidoglio a Roma (il Nobel di allora): ha avuto onori, delusioni, fallimenti, gioie. Sperava di restare nella posterità come grande scrittore in latino – la lingua della cultura – e invece oggi come ieri tutti lo conoscono come l’autore dei Rerum vulgarium fragmenta, cioè le cosette in volgare, ossia il Canzoniere. Testo base della poesia europea moderna, entrato ormai nel nostro patrimonio intellettuale ed espressivo: lezione di uno stile aristocratico, di un senso estremo della musicalità della parola, di un modo di comunicare affetti, emozioni, sentimenti sempre elevato e comunque sincero. Coinvolgente, di qualunque argomento si parli. Di amore, certo. Ma soprattutto di un percorso umano e spirituale. Petrarca raccoglie i frammenti, con una cura amorosa fino alla morte. È emozionante osservare il codice autografo dei suoi versi – il Vaticano lat.3195 -, una rarità assoluta, se si pensa che di Dante e di tanti altri poeti abbiamo solo copie manoscritte più o meno contemporanee. I suoi frammenti, prodotti nel corso di una vita emozionalmente avventurosa, sono in realtà un diario dell’anima. Protagonista assoluto è lui, l’uomo Francesco Petrarca, di Arezzo. Temperamento instabile, insoddisfatto, sensibile: facile agli entusiasmi, alle utopie, come alle depressioni, alle nostalgie. Sospeso sempre fra il richiamo di una vita ambiziosa e l’aspirazione ad una religiosità autentica, fra sentimento della caducità e della colpa, e impennate di contemplazione amorosa, incarnata dall’eterno femminino, che identifica con la figura – più o meno reale – dell’amata Laura. Non è Francesco in possesso della fede rocciosa di un Dante, sia a livello religioso come sociale e politico. Nell’Italia delle Signorie che si formano e si contrastano – i Visconti, i Carraresi, gli Este -, con gli stati nazionali che si rafforzano – la Francia – nel turbamento generale per il papato che ha lasciato Roma per Avignone (l’avara Babilonia la sferza lui, che però sfrutta ampiamente il proprio stato clericale), Petrarca si muove come un idealista insicuro: sognatore- per un certo tempo sosterrà Cola di Rienzo e la sua utopia della Respublica romana – ma anche avido di gloria, esperto in relazioni con chi conta – i Colonna, in particolare -, per un desiderio di autoaffermazione ad ogni costo. Il successo arriva: non a caso il doge di Venezia gli regala una casa nel 1362 sulla Riva degli Schiavoni, e Francesco da Carrara, a Padova nel ’69, gli offrirà un’altra dimora – il prestigio europeo del poeta è alle stelle ed il signore patavino sfrutta la situazione a proprio vantaggio -, fino alla sistemazione sulle colline euganee ad Arquà. Dove accorrono in tanti a trovarlo, e dove vive in pace con i familiari, fino alla morte. Personaggio di cultura internazionale- oggi sarebbe un protagonista mediatico sicuramente – Francesco si svela, prima di tutto a sé stesso, e poi a noi, nel Canzoniere. È qui in particolare che appare moderno, attuale: la sua umanità non si inserisce, come in Dante, in un progetto infinitamente più grande – anche se esso resta ben presente – ma viene consegnata così com’è, fra dubbi, tenerezze, paure, beatitudini, ricordi e rimpianti. Petrarca si guarda allo specchio con acutezza. E in lui tutti noi ci continuiamo a guardare, tanto è commovente la sua sincerità, il suo non trovare un porto sicuro per molto tempo, sino alla tranquillità interiore degli ultimi anni. Elegiaco come Virgilio, emotivo come Catullo, amante di quiete come Orazio – i classici che ama e riscopre nelle abbazie d’Europa, rivelandoli al pubblico, innamorandosene al punto d’immaginare una corrispondenza ad esempio con Cicerone, per cui diventa uno dei padri dell’Umanesimo -; ardente come i contemporanei poeti francesi, siculi o toscani, Petrarca genialmente assorbe quest’humus, lo fa suo. Ne nasce la poesia lirica allo stato puro, che lima e rifinisce di continuo, alla ricerca della perfezione formale e stilistica e dell’espressione immediata del sentimento. Si indirizza ai lettori: Voi che ascoltante in rime sparse il suono/ di que’ sospiri ond’io nutriva il cuore/ in sul mio primo giovinile errore inizia, dando voce alla storia d’amore di due anime – lui e Laura – che è poi la storia di ogni amore profondo e vero sulla terra. Quasi se ne vergogna, Petrarca, da vecchio, eppure non può non raccontarla. Il distacco dell’anzianità gli fa rivivere ogni momento con un fremito ormai controllato. Ricorda: Era il giorno che al sol si scoloraro/ per la pietà del suo fattore i rai: quel venerdì santo del primo incontro con Laura. La descrive bellissima: Erano i capei d’oro a l’aura sparsi; l’ammira nella sua corporeità: Chiare, fresche, dolci acque; ne soffre la lontananza: Solo e pensoso i più deserti campi; rivive i momenti d’amore: Benedetto sia il giorno e i l tempo e l’ora. Trasferisce alla natura la sua gamma sentimentale: Quel rosignol che sì soave piagne, con un atteggiamento già romantico che si trasferirà in letteratura ed arte – le tele di un Giorgione, la musica di un Monteverdi -; vorrebbe morire e non può, dimenticare e non ci riesce. Ha un immenso bisogno di comunicare: è il primo grande scrittore autobiografico moderno. Parla d’amore, certo, ma non solo: è la sua vita, al centro di tutto. Spiana così la via ai petrarchisti di ogni tempo, ai grandi come Shakespeare Tasso e Metastasio, per non parlare di Foscolo, Leopardi; ma anche Goethe, Keats, Baudelaire, e perché no, certi cantautori del Novecento. Tutti, più o meno coscientemente, debbono a lui, alla sua acutezza sentimentale, alla sua finezza stilistica, l’aver spiccato il proprio originale volo. Certo, per Petrarca quando muore Laura, sembra che la vita finisca di colpo. Ma il fuoco che gli arde non si spegne, diventa un incendio interiore: l’amore si sublima, si fa universale così che la sua donna – quasi santificata – diventa un essere angelico. Non però come la Beatrice dantesca, ma come la personificazione concreta dell’amore stesso. Che egli osserva con occhio sempre più purificato. Fantasia, idealismo? Per noi, eredi di un romanticismo dai mille eccessi – dal fosco al tenebroso dal torbido all’angelicato – può far sorridere o rimanere indifferenti, incerti un sentimento tanto duraturo, oggi che l’amore è spesso consumo. Ma non per Petrarca. In lui l’umanità si risceglie con tutto ciò che le è proprio, il guazzabuglio del cuore umano (Manzoni) che rende piccolo e grande l’uomo allo stesso tempo. Petrarca si espone, non si nasconde dietro le allegorie nei suoi frammenti, sollevandosi dalla sua stessa epoca. Non c’è tuttavia in lui quel sentimento che, nel Novecento, diventerà il male di vivere (Montale). Anche perché Francesco è capace sia di meditazioni politiche di ampio respiro (Canzone all’Italia) sia di contemplazioni di autentica religiosità (Vergine bella che di sol vestita) con la quale chiude l’avventura umana e spirituale del Canzoniere. Libero da ogni disperazione, proteso alla vita che continua, all’eternità dell’amore. Leggerlo ancora oggi, in quel suo oscillare fra terra e cielo, è perciò incontrare uno di noi, ma con l’anima grande, capace di rivelare all’uomo la potenza – e la fragilità – del suo sentimento. Francesco lo fa con discrezione ed eleganza, senza nulla nascondere. In una parola, lo fa con armonia. Per questo è il padre dell’umanesimo e, poeticamente, di tutti noi.