Francesco a Genova e l’economia spietata
«Ma questo prete che cosa viene a dirci?». La domanda l’ha posta esplicitamente papa Francesco nell’incontro di sabato 27 maggio 2017 con i lavoratori a Genova, terra di storiche lotte operaie, ora avvolta da una crisi che lascia poche certezze.
A rappresentare il sindacato è stata Micaela Canu, simbolicamente una lavoratrice precaria presso un’agenzia interinale. Intervistata da Radio Vaticana, la Canu ha affermato di cogliere questo incontro come un’occasione per far conoscere «ciò che noi tocchiamo ogni giorno con mano. Entriamo e usciamo continuamente dal lavoro. Abbiamo sulla testa un enigma enorme. Dovrei pensare a ciò che potrò dare ai miei figli ma non so proprio con quali mezzi».
Francesco ha parlato come al solito senza mezzi termini, esponendo casi concreti di esclusione o di lavoro malpagato secondo una logica che sa di ricatto. Ha anche fatto esempi di imprenditori coscienziosi che sono andati da lui piangendo perché messi in difficoltà da giochi speculativi o dalla concorrenza di chi delocalizza selvaggiamente.
Papa Bergoglio ha risposto a precise domande davanti a migliaia di lavoratori dell’Ilva, cioè di una grande azienda metallurgica che si trova da anni in amministrazione straordinaria. I proprietari privati, infatti, sono sotto processo penale; mentre sui loro capitali trasferiti in zone fiscali protette pende una lunga battaglia legale. L’attività è ora in via di aggiudicazione tra due cordate di imprese guidate da gruppi stranieri, con una forte sospensione circa gli investimenti previsti per innovazione e bonifiche ambientali, mentre si temono tagli all’occupazione.
I sindacati sono convocati dai commissari straordinari dell’Ilva per martedì 30 maggio, ma richiedono maggior voce in capitolo. A Genova esiste una massa critica di tute blu pronte ancora ad occupare le fabbriche e scendere in piazza, ma la cronaca quotidiana racconta di battaglie perdute sul lavoro. Papa Bergoglio ne incontra tante nei suoi viaggi in Italia. Nella sua recente visita a Milano si sono rivolti a lui i lavoratori della KFlex di Monza e della General Electric di Sesto San Giovanni, entrambi attraversati dalle stesse dinamiche di delocalizzazioni pesanti.
È lo stesso “sommo pontefice” che non ha timore ad esporsi lanciando, dal balcone di san Pietro, appelli diretti per salvare il posto dei lavoratori di Sky o di Mediaset; conosce la miriade di vertenze nascoste dentro uffici o capannoni anonimi dove padri e madri di famiglia diventano “scarti”, senza nome e volto. Lo stesso 27 maggio almeno tremila persone hanno manifestato nel centro di Roma a partire dai casi Almaviva (oltre mille e seicento licenziamenti in tronco), Acinformatica, precari Alitalia, ecc., occupando poche righe in cronaca.
L’ultimo rapporto Istat , così come quello sullo stato sociale curato dall’Università la Sapienza di Roma, non possono che certificare la scomparsa dei ceti medi e la crescita della povertà, soprattutto nelle famiglie con figli.
È qui che si innesta la questione del cosiddetto reddito di cittadinanza che crea molta confusione. A chiedere un basic income, cioè un reddito minimo per tutti (da Agnelli all’ultimo senza casa) sono solo alcuni studiosi e i movimenti a loro collegati. Altra cosa è assicurare a chi non dispone di risorse sufficienti un reddito sufficiente a garantire una soglia minima di libertà e dignità. Su questo punto il dibattito sulle politiche sociali ed economiche è apertissimo. Il papa, proprio rispondendo alla Scanu come rappresentante del sindacato, ha affermato che non si può immaginare il futuro disegnato dalla nuove tecnologie (Industria 4.0) come una divisione tra chi è destinato a mantenere un’occupazione ben retribuita e un esercito di esclusi costretti a vivere di sussistenza.
L’obiettivo deve essere il lavoro per tutti. Allo stesso tempo, per Francesco, il lavoro deve essere dignitoso. Non può essere una merce così rara che obbliga le persone a sottostare a tutti i ricatti pur di averne uno. Lo ha detto molto chiaramente quando è entrato nel “nocciolo della questione” citando laicamente la Carta fondamentale della nostra comunità nazionale: «Togliere il lavoro alla gente, o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato o come sia, è anticostituzionale. Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto di lavoro lo occupano e lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite».
Francesco, come sempre nei suoi interventi, invita a non accettare la rassegnazione ma a “lottare” spinti dall’amore fraterno. In questo senso ha concluso il suo intervento con la preghiera di “Vieni Santo Spirito” che è una forte implorazione che grida: «Vieni, Padre dei poveri, Padre dei lavoratori e delle lavoratrici».
Un contributo del genere può essere ignorato ma, letto bene, scardina molte certezze: a partire dall’enfasi comune sul merito, che finisce per giustificare le diseguaglianze e l’individualismo competitivo.
Il papa pone in evidenza l’imprenditore come lavoratore, e cita in tal senso una frase famosa del liberale Luigi Einaudi; ma pone sotto accusa l’economia che «perde contatto con i volti delle persone concrete» e «diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata».
Un discorso intriso di sangue, lacrime e sudore. Non è una bella predica e chiede una risposta.