Francesco e il “duplice” viaggio

Nel suo primo viaggio internazionale, papa Francesco sceglie strategicamente Gerusalemme, quale emblema delle convivenze senza pace e senza speranza. Nel volume Francesco e Gerusalemme Paolo Lòriga ne ripercorre gli incontri, offrendoci una lettura sapiente di un evento storico. Pubblichiamo la prefazione di Pasquale Ferrara al volume appena uscito per i tipi di Città Nuova.
Francesco e Gerusalemme

Ci sono eventi che, per la loro densità, sono destinati a pro­durre i loro effetti sul medio e lungo termine. Ci sono gesti che, per la loro intensità, continuano a produrre e riprodurre senza posa il loro significato simbolico. È presto per sapere se la visita di papa Francesco in Terra Santa e il successivo incontro tra Abu Mazen e Shimon Peres in Vaticano si iscrivano nella categoria dei cosiddetti game changer, degli snodi della storia che segnano una discontinui­tà sul piano politico-diplomatico. È certo però che il primo impegno realmente internazionale (e non solo pastorale) di papa Francesco è dello stesso spessore, ad esempio, della preghiera universale di Assi­si per la pace, convocata da Giovanni Paolo II nell’ottobre del 1986.

La prospettiva profetica e la prospettiva simbolica non sono affatto estranee alla politica, al contrario. È proprio quella che gli analisti politici chiamano la vision, la visione, cioè il disegno com­plessivo. Una prospettiva ampia, che permette di comprendere an­che il presente per poterlo trasformare, unitamente alle componenti evocative (e non semplicemente emotive) dell’agire politico a rap­presentare la miscela per innescare il cambiamento e demolire pa­radigmi rocciosi, come quello della prevalenza (illusoria e instabile nel tempo) delle soluzioni di forza su quelle negoziate, del dominio della paura sulla fiducia. Immettere nel circuito politico internazio­nale una narrazione radicalmente diversa, e cioè che i conflitti, an­che quelli più intrattabili, sono in fondo fenomeni umani e sociali e in quanto tali risolvibili, non significa rifugiarsi nella prospettiva dell’utopia; al contrario, implica un esercizio di realismo che para­dossalmente la realpolitik, prigioniera com’è del mito della violen­za, non riesce a compiere.

Tutto questo ha evidenziato il viaggio mediorientale-vaticano di Francesco, al di là delle esaltazioni idealistiche o letture (sola­mente) metafisiche, da una parte, o delle stroncature, pur benevo­le, degli “specialisti”, cultori della strategia e della geopolitica. Le interpretazioni di quello che potremmo definire nei termini di un “duplice viaggio”, considerando in modo unitario e inscindibile sia quello di Francesco in Terra Santa come pellegrino che quello dei suoi illustri ospiti alla Santa Sede, oscillano tra dimensione essen­zialmente politica e quella esclusivamente religiosa, come se fosse davvero possibile – in un mondo in cui le identità si compongono di appartenenze multiple, territoriali, politiche, spirituali, culturali – distinguere in modo netto o anche solo approssimato i due ambiti.

D’altra parte, il conflitto israelo-palestinese non ha mai assun­to in modo caratterizzante – se non a tratti e in alcuni segmen­ti delle rispettive società – la dimensione dello scontro religioso, trattandosi piuttosto di ripartizione o condivisione di territori. In pari tempo, la stessa natura dei luoghi contesi, per il loro signi­ficato esplicito, ancestrale e identitario, rimette continuamente in gioco la questione religiosa, che rimanda ai fondamenti di antiche civiltà mediterranee, che hanno però definitivamente proiettato il loro orizzonte di senso su scala universale, ben oltre i confini poli­tici, etnici, linguistici di un minuscolo lembo del Vicino Oriente. Dinanzi a tale complessità di rimandi e di implicazioni, Francesco ha scelto la strada più diretta, più semplice (anche se tutt’altro che semplicistica): ritrovarsi assieme, attorno a questo misterioso gro­viglio storico-politico e al contempo spiritualmente fondativo, per un’anamnesi possibilmente condivisa, nella consapevolezza, tutta­via, che ciò non possa giustificare alcuna amnesia.

Il momento storico in cui si colloca questo gesto inclusivo, senza pretese di essere conclusivo, è quello che, nella migliore delle ipotesi, si potrebbe definire come stallo diplomatico e, nella peggiore, come conservazione (armata) dello status quo. Sembra estremamente difficile che le parti – israeliani e palestinesi – possa­no trovare una soluzione concordata sulla base delle varie formule sinora escogitate, a cominciare da quella “due popoli, due Stati”, che dovrebbe affrontare la questione, grande come un macigno, dei con­fini realistici di un nuovo Stato palestinese indipendente, fornendo al contempo solide garanzie di sicurezza a Israele.

L’esaurirsi, ormai prossimo, delle ipotesi ancora praticabili richiede un profondo mutamento di prospettiva, e di immaginare soluzioni forse originali e inesplorate, a cominciare da quel vero e proprio intricato reticolo di micro-governance civile, religiosa, securitaria e comunitaria e di fratture e ricomposizioni intersecan­tesi e sovrapposte che è Gerusalemme. La profezia, spesso ripetuta dal card. Martini – che la pace a Gerusalemme condurrà alla pace su tutta la terra –, ha un risvolto forse di minore portata, ma non meno rilevante: è la stessa riconfigurazione degli spazi vitali e socia­li di Gerusalemme ad apparire una precondizione o comunque un elemento imprescindibile della soluzione complessiva del conflitto israelo-palestinese e in cui la comune radice delle religioni del Libro ha senza dubbio ancora molto da offrire.

Inoltre, il panorama complessivo del Medio Oriente e del Nor­dafrica è cambiato radicalmente in pochi anni, e in particolare a partire dal 2011 con le transizioni politiche nel mondo arabo-isla­mico (tutt’altro che concluse, e con preoccupanti segnali di involu­zione, tranne forse per la Tunisia), con il virtuale disfacimento di un attore importante come la Siria, la contrapposizione faziosa in Libia, il sorgere di un’entità pseudostatale e dagli inquietanti tratti neoimperiali come l’Isis e la sua ossessione antistorica del Califfato.

Mentre i confini tra Israele e (futuro) Stato palestinese non sono stati ancora definiti, e quelli derivanti dalla guerra arabo-israeliana del 1967 profondamente contestati, sono di fatto messi in discussio­ne per la prima volta altri confini esistenti. Quelli tracciati fretto­losamente già alla fine della Prima guerra mondiale con l’accordo Sykes-Picot del 1916 tra Gran Bretagna e Francia che sancirono di­visioni arbitrarie, di matrice coloniale, in Medio Oriente e la succes­siva nascita di numerosi Stati indipendenti dopo il secondo conflitto mondiale. A ciò si aggiunga la mobilitazione degli attori regionali nel conflitto siriano, con l’interventismo indiretto, di opposta ma­trice, degli Stati del Golfo (in particolare i due “giganti” dell’Arabia Saudita e dell’Iran).

In questo ribollire di tensioni antiche e nuove, il “segno” di Francesco, così compiutamente, pazientemente e saggiamente rico­struito, descritto e contestualizzato in questo scritto di Paolo Lòri­ga, appare molto più che un messaggio di speranza; è piuttosto un appello “proattivo”, un’irruzione, ma in punta di piedi, una voce orante e ragionante dal deserto più che una voce che grida nel de­serto, e che interpreta il disagio profondo dell’umanità periferica proprio nel cuore di un conflitto così centrale e così lacerante come quello mediorientale.

Pasquale Ferrara

Diplomatico, Segretario generale dell’Istituto universitario europeo

 

Da "Francesco e Gerusalemme, sfida religiosa e politica" di Paolo Lòriga, Città Nuova, 2014

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