Francesco e il dialogo contro la violenza
«Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio. Discriminare in nome di Dio è inumano». Parole di papa Francesco durante l’incontro con i responsabili delle diverse religioni presenti in Albania, Paese a maggioranza musulmana che rappresenta un esempio di convivenza pacifica e cordiale.
In questa prima simbolica visita del papa argentino in un Paese europeo, simbolico perché alla "periferia" del continente, Francesco ha detto: «Non possiamo non riconoscere come l’intolleranza verso chi ha convinzioni religiose diverse dalle proprie sia un nemico molto insidioso, che oggi purtroppo si va manifestando in diverse regioni del mondo». Il compito dei credenti è quello di essere «particolarmente vigilanti affinché la religiosità e l’etica che viviamo con convinzione e che testimoniamo con passione si esprimano sempre in atteggiamenti degni di quel mistero che intendono onorare, rifiutando con decisione come non vere, perché non degne né di Dio né dell’uomo, tutte quelle forme che rappresentano un uso distorto della religione. La religione autentica è fonte di pace e non di violenza!».
Per capire come procede il dialogo in questa terra che proviene da un recente passato che ha visto in atto il potere di un regime fortemente ateo, abbiamo rivolto qualche domanda al padre domenicano Ivan Attard, parroco a Durazzo.
In quale contesto si pone il dialogo ecumenico e interreligioso?
«Il popolo albanese ha vissuto una storia a pezzettini. Prima del periodo ottomano, la cultura albanese era molto simile alle culture europee di quel tempo: una cultura cristiana e feudale, tipica del periodo pre-moderno. Con l’occupazione turca, si è trovato con una cultura che aveva poco in comune con quella precedente. Era una nuova cultura di matrice musulmana. Dopo circa 500 anni di dominio ottomano, gli albanesi hanno ottenuto l’indipendenza cercando di guardare di nuovo verso il mondo europeo moderno. L’Albania doveva recuperare un cammino di circa 500 anni, che l’Europa occidentale aveva già fatto, con le rivoluzioni, il modernismo, l’illuminismo e il liberalismo. Però questo periodo è durato poco».
Perché?
«Nel 1944 è salito al potere il partito comunista che esprimeva una cultura che non aveva niente a che fare con quella precedente, anche se ha saputo innestarsi su infrastrutture culturali già esistenti, come il modello della famiglia patriarcale. Dopo la caduta del comunismo negli inizi anni Novanta, è penetrata una cultura neo-liberale, con i suoi alleati, come il consumismo, l’individualismo, l’utilitarismo, l’edonismo e cosi via. In questo modo si può vedere come ogni periodo non abbia quasi niente in comune con quello precedente. Cosi, ogni fase storica ha lasciato e sta lasciando le sue impronte culturali».
Con quali conseguenze?
«La frammentarietà e discontinuità della storia dell’Albania producono la mancanza di una sintesi culturale, anche se gli albanesi vivono abbastanza in armonia tra di loro. Il disagio è più interiore e personale che esteriore, perché manca un sistema di valori consolidati che permetta di affrontare i problemi (personali, familiari, sociali, politici, economici) della vita quotidiana. Quelli che soffrono di più per questa situazione sono le nuove generazioni che vivono il disorientamento nelle scelte fondamentali dell’esistenza».
Cosa dire in tale situazione del rapporto con gli islamici?
«L’Islam albanese, attualmente, è molto mite e moderno, anche se sta aumentando l’influenza di movimenti musulmani più rigorosi di provenienza araba, in modo particolare tramite investimenti e opere umanitarie. I musulmani, i cattolici e gli ortodossi sono tutti albanesi, anche se ogni religione viene identificata con qualche influenza straniera. I musulmani sono considerati di influenza turca e araba, i cattolici di influenza italiana e gli ortodossi di influenza greca. Per questa ragione, sia i cattolici che gli ortodossi albanesi (più che i musulmani), percependosi come minoranza, insistono nella definizione della propria autonomia e nella resistenza alle influenze straniere».
A che punto è giunto nella pratica il dialogo ecumenico tra confessioni cristiane?
«Il fatto di essere minoranza facilita il dialogo ecumenico fra le Chiese. Il dialogo nella carità, cioè il dialogo fraterno e la collaborazione tra le Chiese, in modo particolare tra cattolici e ortodossi, è molto sentito. Il dialogo nella verità è avviato specialmente con la Chiesa ortodossa, con la quale si cerca di capire cosa intende l’altro prima di entrare nelle dispute, per evitare incomprensioni e pregiudizi. Esiste una bella collaborazione tra il seminario cattolico di Scutari e l’accademia teologia ortodossa di Shen Vlash. Cattolici, ortodossi e comunità della riforma protestante ed evangelica si incontrano anche per la preghiera per l’unità dei cristiani. Un’esperienza di un certo interesse, che ha unito gli incaricati del dialogo ecumenico e della pastorale universitaria, è stata la conferenza sulla famiglia, nel corso della quale le università e i centri studio legati alle diverse confessioni cristiane (Università cattolica “Nostra Signora del Buon Consiglio”, l’Università ortodossa “Logos”, l’Accademia ortodossa di Shen Vlash, l’Istituto filosofico-teologico di Scutari e l’Istituto di teologia evangelica) si sono confrontati sui fondamenti dottrinali della famiglia come nucleo basilare della società».