Francesco affida la pace al dialogo tra le fedi
«Questo mio pellegrinaggio non sarebbe completo se non contemplasse anche l’incontro con le persone e le comunità che vivono in questa terra». La frase di papa Francesco indica con chiarezza il senso del programma della terza e ultima giornata della visita in Terra Santa, incentrata infatti su una sequenza di incontri con il mondo religioso e politico presente a Gerusalemme.
E proprio quelle parole hanno aperto la visita al Gran Muftì nella sede del Gran consiglio sulla Spianata delle Moschee, indicando poi in Abramo il pellegrino in cui si riconoscono musulmani, cristiani ed ebrei. «La condizione di Abramo dovrebbe essere anche il nostro atteggiamento spirituale», ha precisato Francesco per poi lanciare un «accorato appello» alle comunità che si riconoscono in Abramo: «Rispettiamoci ed amiamoci gli uni gli altri come fratelli e sorelle! Impariamo a comprendere il dolore dell’altro! Nessuno strumentalizzi per la violenza il nome di Dio».
Dalla Cupola della Roccia al Muro occidentale del Tempio di Salomone, il cosiddetto Muro del pianto, la distanza è assai breve. Accolto dal rabbino capo, il papa ha sostato in preghiera silenziosa per alcuni minuti, toccando il muro con la mano destra prima di depositare in una fessura una busta. Dentro, un foglio con il testo del “Padre Nostro”, scritto in spagnolo. Il papa stesso ha spiegato il motivo: «L’ho scritto di mio pugno nella lingua in cui l’ho imparato da mia madre».
Poi due soste nel suo pellegrinaggio del dolore: una breve, rendendo omaggio alla stele in ricordo delle vittime israeliane del terrorismo; una più lunga, al Memoriale di Yad Vashem, monumento e museo alla memoria della Shoah, assieme al presidente dello Stato, Shimon Peres, e al primo ministro, Benjamin Netanyahu.
Nella Sala della Rimembranza, dove sul pavimento sono scritti a grandi caratteri i nomi dei campi di concentramento nazisti, papa Bergoglio ha pronunciato un breve, toccante discorso. «Dove sei, uomo? Dove sei finito? Chi ti ha contagiato la presunzione di impadronirti del bene e del male? Non solo hai torturato e ucciso i tuoi fratelli, ma li hai offerti in sacrificio a te stesso, perché ti sei eretto a dio». E prima di salutare alcuni sopravvissuti all’Olocausto, baciando loro la mano, ha innalzato al cielo una richiesta: «Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria».
Il rapporto con gli ebrei è proseguito, al massimo livello religioso, con la visita di cortesia ai due Grandi Rabbini di Israele, quello askenazi, Yona Metzger, e quello sefardita, Shlomo Amar. L’amicizia con i due ha consentito al papa di andare subito al cuore dell’incontro, aprendo una precisa prospettiva: «Siamo chiamati ad interrogarci in profondità sul significato spirituale del legame che ci unisce», perché «si tratta di un legame che viene dall’alto, che sorpassa la nostra volontà e che rimane integro, nonostante tutte le difficoltà di rapporti purtroppo vissuti nella storia». La consapevolezza del patrimonio comune è, per Francesco, la premessa per poter raggiungere importanti obbiettivi: «Insieme potremo dare un grande contributo per la causa della pace; insieme potremo testimoniare, in un mondo in rapida trasformazione, il significato perenne del piano divino della creazione; insieme potremo contrastare con fermezza ogni forma di antisemitismo e le diverse forme di discriminazione».
Una prospettiva del genere ha bisogno anche del sostegno della politica, in primis della politica israeliana. E tale è stato il cuore dell’incontro con il presidente dello Stato, Shimon Peres, definito da Francesco «uomo saggio e buono». Dopo aver piantato assieme un ulivo nel giardino del Palazzo presidenziale, il papa ha auspicato che Gerusalemme «sia veramente la Città della pace», costatando (e allo stesso tempo chiedendo): «Com’è bello quando i pellegrini e i residenti possono accedere liberamente ai Luoghi Santi e partecipare alle celebrazioni», segno che così non è sempre. E poi, immancabile, il tema della pace, evidenziando che la sua costruzione «esige anzitutto il rispetto per la libertà e la dignità di ogni persona umana, che ebrei, cristiani e musulmani credono ugualmente essere creata da Dio e destinata alla vita eterna». Peres, 90 anni, Premio Nobel per la pace, è un sicuro alleato del papa, ma c’è da procedere in fretta, perché il presidente israeliano è al termine del mandato. C’è tempo sino a metà luglio. Non è in scadenza invece il primo ministro Netanyahu, che il papa ha ricevuto in udienza privata, dopo aver lasciato Peres. Non è dato sapere i contenuti del colloquio, così come quelli affrontati nella visita privata al patriarca Bartolomeo, ma tutto lascia supporre che il papa abbia riferito i risultati dei colloqui avuti nella mattinata.
Prima di lasciare Israele dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, il papa ha voluto chiudere la sua permanenza in Terra Santa con due appuntamenti squisitamente cattolici. L’incontro con sacerdoti, religiosi, religiose e consacrati nella Chiesa del Getsemani, accanto all’Orto degli Ulivi, ha avuto l’intento di rievocare la notte di angoscia di Gesù e il sonno, il tradimento, la fuga dei discepoli, per riconsegnare a ciascuno dei presenti il senso della propria vocazione e il respiro della missione in questa regione.
In chiusura, quale sigillo sull’intero viaggio, la visita al Cenacolo, luogo dell’Ultima cena, dell’apparizione come risorto, della discesa dello Spirito Santo su Maria e gli apostoli, ma pure oggetto di lunga e perdurante controversia con lo Stato israeliano. La celebrazione della messa è vietata. Solo Giovanni Paolo II poté celebrarla nel 2000. Francesco ha potuto fare altrettanto, presiedendo il rito con gli ordinari di Terra Santa. Il Cenacolo, ha precisato il papa, «ci ricorda il servizio con la lavanda dei piedi, ci ricorda l’Eucaristia, il sacrificio, ci ricorda l’amicizia, e anche la meschinità e il tradimento, ci ricorda la nascita della nuova famiglia, la Chiesa».
Una Chiesa che, custodendo la memoria del passato, è protesa fuori, verso tutti. Ritorna qui una priorità cara a Bergoglio. «Qui è nata la Chiesa, ed è nata in uscita. Gesù risorto comunicò agli apostoli il suo stesso Spirito e con la sua forza li inviò a rinnovare la faccia della terra». La faccia della terra, niente di meno. L’obbiettivo consegnato ai pastori della Terra Santa è chiaro. Ma Francesco, a scanso di equivoci, lo ribadisce: «Questo è l’orizzonte del Cenacolo».
Tre giorni intensi sono finiti, una visita importante è consegnata alla storia, la fatica è visibile sul volto del papa. Ma qui a Gerusalemme ha lasciato una scia di luce, di gioia, di nuove prospettive. Chissà che Francesco non la consideri una missione compiuta.