Frammenti di Casentino
Non mi sono allontanata tanto da casa. Niente luoghi esotici o avventure in Paesi remoti. Avrò percorso poco più di 50 km, all’inizio. Da forestiera recentemente trapiantata ad Arezzo, ho cominciato a scoprire il Casentino in frammenti di gite domenicali di fine estate, partendo con lunghe camminate dentro le sue foreste di faggi e abeti bianchi, passando per le sue pievi e gli eremi, vagheggiando da lontano i castelli turriti. Ogni frammento è diventato un viaggio dove l’immanente si è confuso con l’immaginazione, la storia con la leggenda, il presente con il passato, aperto ancora a infinite possibilità di scoperta. La geografia, la visione d’insieme è venuta dopo, quando ho compreso che quel fiumiciattolo esiguo, che vedevo scorrere tra ciottoli grigio-bianchi lungo il fondovalle, era l’Arno giovane, appena nato dal Falterona, che scivolava giù, all’inizio del suo lungo viaggio per raggiungere il mare.
La Giogana
La Giogana è il mio sentiero del Casentino. Tecnicamente è parte del sentiero “00” che permette di attraversare per intero la vallata. Si chiama così per l’uso che si faceva di questa mulattiera, un’antica via del legno, lungo la quale i buoi “aggiogati” trasportavano tronchi di abete dalle foreste casentinesi fino all’Arno, nel porto di Poppi, e da lì, via acqua, fino a Firenze. La Giogana parte da Prato alla Penna, appena sopra l’Eremo di Camaldoli, e raggiunge prima Poggio Scali, a quota 1520 metri, e poi il Passo della Calla, camminando lungo la linea del crinale appenninico, tra Toscana e Romagna. Un passo alla volta è stata la mia “iniziazione” al Casentino d’altura. L’ho ammirata a primavera, con il verde brillante dei prati freschi, circondati da folti cespugli di ginestra gialla; l’ho calpestata scrocchiante di foglie rosse e arancio in autunno; ci sono affondata in inverno, con i muscoli doloranti per l’incoscienza di aver dimenticato le ciaspole in macchina. Con i suoi 850 metri di dislivello, la Giogana è una camminata che produce l’effetto del parto: dopo un po’ dimentichi la fatica e ricordi solo il bello che hai vissuto. Come la vista sulla dorsale appenninica da Poggio Scali, o gli alberi della riserva integrale di Sasso Fratino, la prima a essere istituita in Italia nel 1957, con i suoi faggi vecchi 4, anche 5 secoli, che la rendono una delle foreste più antiche d’Europa. Se ami la perfezione dei percorsi ad anello, questo non fa per te: sono circa 20 km andata e ritorno sulla stessa via. Ma, nella ripetizione, noterai le atmosfere che cambiano con lo scorrere delle ore e della luce. È il ritmo del passo che ristabilisce il rapporto giusto dell’uomo con la natura, del piccolo e fragile, con il grande e maestoso.
Il Castello di Poppi
In molti sostengono che il Castello di Poppi sia il monumento del Casentino. Certamente, è quello che si fa notare di più, strategicamente posto al centro della valle. Io l’ho visitato in un pomeriggio terso di pieno autunno. Si trova a circa 40 km da Arezzo, lungo la strada Regionale Umbro-Casentinese. Per raggiungerlo bisogna attraversare l’Arno in località Ponte a Poppi (proprio dove s’imbarcavano gli abeti diretti a Firenze!) e poi risalire la collina, lungo tornanti che sembrano non finire mai. Parcheggiando nella piazza davanti al castello, noto che è vero, assomiglia a Palazzo Vecchio, che Arnolfo di Cambio, si dice, costruì ispirandosi al maniero dei conti Guidi, che resero Poppi il quartier generale della loro signoria, abitandolo per quasi 400 anni. Vicino all’entrata, prima di attraversare il fossato, un busto di Dante Alighieri ricorda, semmai ce ne fosse bisogno, il suo passaggio da queste parti. Fu prima cavaliere vittorioso nella battaglia di Campaldino del 1289, combattuta tra guelfi fiorentini e ghibellini aretini, proprio nella piana tra Poppi e Pratovecchio; poi fu ospite, nel 1310, dei conti Guidi, ormai esule dalla sua Firenze, e con una condanna a morte sul capo. Nella tragedia, sembra che qui trovasse ispirazione per comporre il XXXIII Canto dell’Inferno. Se da un castello ti aspetti anfratti misteriosi, prigioni, sale ricche d’arte e storie di fantasmi, questo è il luogo perfetto per te. Ma la particolarità è che è sempre rimasto il centro del potere amministrativo della zona. Ancora oggi è la sede del Comune e della Biblioteca Rilliana. Il signor Roberto Salvi, che lavora qui, mi racconta: «Si fa l’abitudine a tutto, ma non a lavorare in un castello. Basti dire che la sera resto da solo a chiudere l’“ufficio”. Io sono assolutamente scettico, ma non posso negare di aver sentito rumori sinistri o finestre che sbattono, che poi vai a vedere e le trovi tutte chiuse…». Che dire, quello di Poppi è un castello vero.
L’artigianato di Stia
«Ho lavorato qui per 25 anni, al reparto tessitura, con mio marito. Sarà per questo che, anche se sono stati anni duri, io li ricordo felici!», mi racconta Laura Benucci, ex operaia del Lanificio di Stia. Sono arrivata al limite settentrionale della valle, alla base del Falterona, dove il torrente Staggia sfocia nell’Arno. Forse, si deve all’abbondanza dell’acqua l’operosità di questo paese che, nei primi decenni del 1900, ospitava uno dei principali lanifici italiani, fornitore ufficiale di Casa Savoia, all’avanguardia anche dal punto di vista della tutela previdenziale dei lavoratori. Tutta l’economia della zona, dalla metà dell’800 agli anni ’50 del secolo scorso, girava intorno a questa fabbrica, proprietà della famiglia Lombard. Con la crisi del settore, dagli anni ’60, il Lanificio fallì. Nel 2010, Simonetta Lombard riacquisì gli edifici e costituì una Fondazione che elaborò il progetto di un Museo dell’Arte della Lana, per la diffusione della cultura tessile. Mentre visitiamo insieme il Museo, Laura continua il suo racconto: «Quando sono rientrataqui per la prima volta, più di tutto mi ha colpito l’odore, l’odore che si sente ancora, dell’olio delle macchine mescolato a quello della lana. E il rumore! Il rumore che facevano i macchinari, assordante, che da lontano ci si capiva ma non ci si sentiva». Perché il percorso museale è anche un’esperienzasensoriale, dove si può sperimentare, attraverso gli odori, i suoni e il tatto, la storia dell’arte della lana di Stia. Organizzano anche laboratori. Davvero un bell’esempio di recupero diarcheologia industriale.
I monaci dell’Eremodi Camaldoli e gli alberi
In fin dei conti, a me piacciono i percorsi ad anello. Per chiudere questo piccolo elenco di frammenti casentinesi, ritorniamo in altura, a quota 1100 metri, dove si trova il Sacro eremo di Camaldoli, fondato da San Romualdo nell’XI secolo. È un luogo affascinante, che vive del silenzio orante dei monaci e del respiro della natura. Un luogo che si è mantenuto nel tempo isolato e perfettamente integrato nella foresta, non a caso. Sono stati i monaci ad averne avuto cura, tanto che la loro Regola di vita fu anche detta “Codice forestale”, in un’identificazione tra amore a Dio e cura del bosco, che arriva ad assimilare le virtù dei monaci ad alberi: «Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione e alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza». È la lezione che s’impara quassù: la natura curata e rispettata offre sempre un canale privilegiato d’incontro con l’Eterno e con l’uomo.