Fra tradizione e martirio
Mi è spesso capitato, arrivando al fondo degli Atti degli apostoli, di restare un po’ con la bocca amara. Affascina infatti sapere del peregrinare avventuroso di Paolo e Barnaba, delle prime diatribe fra Pietro e Paolo, della vita di una comunità che resta esempio insuperato di che cosa voglia dire essere “un cuor solo ed un’anima sola”. Ma arrivando al termine di quelle pagine vien da dire: “E che cosa è successo agli altri? Come è andata a finire con Giacomo, Giovanni, Filippo, Tommaso?”. Chissà che avventure! Se Giacomo dicono fosse arrivato a Compostella, Tommaso, dal lato opposto, con tutta probabilità arrivò in India. Anche se non esistono documenti inconfutabili, la tradizione popolare sull’apostolo è assai radicata, ed è pure avvalorata da pellegrinaggi tradizionali: il luogo dove si dice sia sbarcato su terra indiana, le sette chiese da lui fondate, il luogo in cui fu martirizzato. In effetti nei primi secoli, e più tardi durante tutto il primo millennio, il commercio fra il Medio Oriente e le Indie rimase florido e intenso. Non sorprenderebbe quindi un apostolo imbarcato su una nave di mercanti, approdato sulle coste del Kerala. La chiesa, sicuramente già presente nel sud dell’India verso la fine del primo secolo, successivamente mantenne i contatti con la Caldea. Fu infatti da quella sede che si provvide a tenere viva la cristianità in India, ordinando vescovi inviati poi in Kerala. La colonizzazione portoghese Per quasi 1400 anni la Chiesa indiana, pur confinata nel Kerala, crebbe nel contesto culturale e sociale locale. I primi grossi problemi arrivarono solo con le grandi spedizioni del XV e XVI secolo. I portoghesi arrivarono infatti in India verso la fine del Quattrocento e si fermarono a Goa. All’estremo sud trovarono, con grande stupore, fedeli radicati nella tradizione apostolica. Fu tremendamente difficile per questi europei, paladini del papa di Roma, accettare una fede legata alla tradizione ortodossa orientale della Caldea. Per questo il contatto fra la Chiesa latina e quella orientale si trasformò in India, anche per ragion di stato, in scontro frontale. Da un lato infatti la presenza portoghese fu strumentale per l’evangelizzazione di Goa e della costa occidentale. San Francesco Saverio, morto alle porte della Cina, ma sepolto e venerato a Goa, resta l’esempio emblematico di un momento irripetibile. Dall’altro lato, però gli stessi portoghesi, latini, esigirono la “conversione” dei cattolici di Tommaso che si sentirono trattati alla stregua di infedeli. Con l’erezione del Padroado, il patriarcato di Goa, come unica diocesi dell’oriente, che si estendeva dal Golfo Persico al Giappone, e con la morte misteriosa di un legato pontificio, si consumò una divisione di cui si pagano dolorose conseguenze ancora oggi. I cristiani di Tommaso giurarono infatti che mai e poi mai avrebbero obbedito a un vescovo latino e chiesero aiuto ancora una volta alla Chiesa orientale. Nacque così la Chiesa siro-ortodossa giacobita, che continuò a vivere nel grande ambito dell’ortodossia. Da essa nei secoli successivi, in mezzo a sviluppi complessi e macchinosi, si staccarono due gruppi che, riunendosi a Roma, hanno costituito la Chiesa siro-malabarese e quella siro-malankarese, oggi in comunione con la Chiesa cattolica, e legati all’antica liturgia orientale. Negli ultimi secoli, altre ondate di evangelizzazione si sono susseguite in India. I gesuiti ne sono stati protagonisti a Goa e Mangalore e nello stato del Tamil Nadu, e, nel secolo scorso, nella fascia tribale delle provincie dell’India centrale. I cappuccini hanno portato il cristianesimo nell’Uttar Pradesh, nelle provinceattorno a New Delhi e nel Punjab. I salesiani nel giro di un secolo hanno evangelizzato il nord-est, abitato da sino-mongoli, al confine con Cina e Birmania. Ma non si possono dimenticare i padri del Pime, i verbiti, i domenicani e tanti altri che hanno contributo alla nascita di una chiesa completamente indiana nel clero. All’inizio del terzo millennio Oggi il cristianesimo vive in India una fase importante e, per certi versi, contraddittoria, nel suo cercare strade per essere proponibile e credibile di fronte a milioni di persone che seguono altre fedi come l’induismo, l’Islam, il gianismo ed il sikhismo. Da un lato, infatti il popolo cristiano è in India, come in tutta l’Asia (eccezion fatta per le Filippine) un “piccolo gregge”. Dall’altro però, la chiesa in India ha un peso notevole sia a livello sociale che educativo, ed offre una presenza encomiabile nel tessuto sociale. Influisce così fortemente sull’intellighenzia e sulle classi politiche, dove molti degli esponenti di rilievo provengono da studi nell’ambito cristiano. Propone inoltre modelli, come Madre Teresa, che sono indiscutibili ed affascinanti per l’anima indiana. Il post-concilio ha dato poi il via, anche qui, ad una molteplicità di sforzi nell’ambito dell’adattamento culturale del cristianesimo alla mentalità e alla millenaria cultura locale. Dagli anni Sessanta in poi, sono iniziati sforzi per una inculturazione di pensiero, espressioni di fede e forme liturgiche che rendano il credo cristiano più comprensibile alla cultura indù. Non mancano ovviamente i problemi. Da un lato lo sforzo immenso di lasciare forme ed espressioni codificate da secoli in nome di un connubio del credo cristiano con il pensiero e la cultura greca aliena a questo mondo che si muove su una lun- ghezza d’onda completamente diversa. Il colonialismo ha poi complicato le cose, rendendo agli occhi dell’indiano e dell’asiatico in generale, la fede di Gesù, peraltro nato in Asia, un credo d’importazione. lnoltre la chiesa, anche qui come dovunque, ripropone al suo interno immagini chiave della società all’interno della quale vive. In India queste valenze sono le sperequazioni sociali, le stratificazioni a compartimenti stagni, corporativismi di matrice culturale, linguistica o etnica. Un cristiano indiano, anche se cristiano, non può né nascere né vivere né sposarsi né pregare se non come membro di un certo gruppo sociale. Il riuscire a dare una risposta pienamente cristiana e indiana a questo problema è un’altra sfida. Una nuova componente è apparsa con la progressiva diffusione del fanatismo indù, che dopo essersi rivolto per decenni solo contro l’islam, ha da alcuni anni alzato la mira anche verso i cristiani. È questa una grossa novità per una delle poche chiese a non aver mai avuto martiri, probabilmente per via della mentalità conciliante indù. Negli ultimi anni numerosi sacerdoti, suore e missionari laici hanno dato la vita a causa della loro fede. Molti gli episodi di violenza contro strutture e persone, perché seguaci di Cristo e per questo impegnate sulla strada della giustizia e della uguaglianza sociale. Come diceva mons. Henry D’Souza, già arcivescovo di Calcutta, “la testimonianza di perdono che i cristiani danno senza reagire a provocazioni e delitti perpretrati contro di loro sarà una prova tangibile del cuore del cristianesimo”. La chiesa in India sarà senza dubbio protagonista del nuovo millennio con i suoi pastori, i religiosi e le religiose e con i suoi teologi alla ricerca di strade nuove per sintesi di pensiero e fede accettabili per l’uomo d’oriente; ma anche coi suoi laici, che possono proporre un modo di essere cristiani diverso da quanto siamo abituati a vedere in occidente. Potrebbe essere un contributo epocale per la chiesa universale.