Fra timori e speranze

La paura dell’onda sovranista e la necessità di tornare al disegno politico originari. Proponiamo l'inchiesta pubblicata sul numero di Maggio di Città Nuova

Un clima di grande attesa e di tensione accompagna le elezioni del Parlamento europeo di maggio 2019. La storia non si ripete mai nello stesso modo. Ma il timore della rottura dell’Unione europea (Ue) per la crescita impetuosa dei partiti nazionalisti fa cadere dalla rimozione collettiva la memoria del rapido passaggio dei nazisti dal 2,8% del 1928 alla conquista del potere per via elettorale in Germania nel 1933. Un fatto che spalancò la strada al disastro del secondo conflitto mondiale.

I sondaggi sono rassicuranti, ma è recente la sorpresa del 2016 per il referendum che ha decretato l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue (salvo clamorosi ripensamenti), avviando un periodo di forte instabilità con il rinvio della definizione delle condizioni della Brexit a ottobre 2019 e il paradosso della partecipazione dei britannici all’elezione del Parlamento europeo. Anche l’evoluta Finlandia ha visto, nel voto nazionale di aprile, una sorprendente affermazione del partito dei “veri finlandesi” giunti a un soffio dai vincitori laburisti.

Macron

Sonnambuli e rammolliti

Avvertendo il pericolo, il presidente francese Emmanuel Macron ha elaborato una sorta di lettera-manifesto destinato a ogni cittadino dell’Unione per affermare che «non possiamo essere i sonnambuli di un’Europa rammollita», evocando, in qualche modo, lo stato di confusione del continente che precipitò dai fasti della Belle époque all’inferno della Prima guerra mondiale.

Anche il suo concittadino filosofo Henry Bernard Levy gira il continente, sostenuto da grandi testate giornalistiche, per promuovere nei teatri un monologo sulla possibile fine del sogno europeo scalzato dalla retorica dei “populisti”, ma il celebre  intellettuale dovrebbe almeno fare i conti con certe sue scelte discutibili come il sostegno alla guerra in Libia voluta fortemente dall’allora presidente Sarkozy nel 2011, contestata dalla Germania e subita supinamente dall’Italia. Proprio la divisione sulla politica estera e gli interventi militari, emersa nella guerra in Iraq, è all’origine, secondo un europeista convinto come Romano Prodi, delle grandi paure dell’immigrazione e della crisi economica.

Unione politica incompiuta

L’ex presidente italiano della Commissione europea ribadisce sempre che la prima frattura nel disegno unitario si è avuta nel 1954, quando l’Assemblea nazionale francese bocciò il trattato del 1952 sulla Comunità europea di difesa, vanificando il progetto dei padri fondatori europei, in particolare del lungimirante Alcide De Gasperi, di consolidare un’unità politica rimasta sempre in bilico. Nel 2019, la situazione è ancora più compromessa perché, come riconosce Prodi, Trump ha aggravato la strategia Usa di «spaccare l’Europa» per rimuovere un ostacolo nella guida dell’economia e politica mondiale che resta terreno di contesa tra Cina, Stati Uniti e Russia. La scelta della chiusura dei singoli Stati europei nei loro interessi particolari si rivela, perciò, funzionale alla prospettiva di eliminare dal tavolo delle decisioni a livello globale il soggetto europeo che finirebbe in tal modo, come dice crudamente l’economista Gustavo Piga, nella lista del menù dello stesso tavolo. Non si tratta solo di egemonia geo-politica quanto della missione, che solo l’Europa unita può svolgere, di evitare un conflitto apocalittico tra le superpotenze.

Ma come è stato possibile in questi decenni passare dall’immagine di un’Europa come opera comune di popoli usciti stremati da guerre e dittature alla rappresentazione distorta di una costruzione fatta di burocrati e banchieri? Non solo nel centrodestra la caduta del governo Berlusconi nel 2011 sostituito in corsa da Mario Monti è stata considerata come un “golpe” ordito da burocrati europei. Mentre è diffusa, ormai, la consapevolezza delle misure di austerità imposte ingiustamente alla Grecia seguendo parametri smentiti anche dal Fondo monetario internazionale e già aspramente criticati da appelli pubblici di importanti economisti.

Democrazia reale

Nel 2016 su Città Nuova, alla vigilia del referendum sulla Brexit, un altro economista, Stefano Zamagni, ravvisava la necessità di ridiscutere la visione “ordoliberista” del trattato internazionale di Maastricht del 1992, fondativo dell’Ue, e quello di Lisbona del 2007. «Svolta radicale indispensabile» per «non far cadere a pezzi l’Unione europea».

Ora anche Macron, nella sua lettera-manifesto diffusa in 22 lingue, ravvisa la necessità entro fine anno di convocare una grande conferenza per l’Europa, aperta alla società civile, per definire «i cambiamenti necessari al nostro progetto politico, senza tabù, neanche quello della revisione dei trattati».

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Se davvero si volesse entrare nel merito, di contenuti e istanze è quanto mai ricco il mondo associativo. Dalle organizzazioni cristiane arrivano, infatti, gli appelli più convinti per l’Europa coniugati alla necessaria “apertura al mondo intero” come dimostra l’intuizione profetica “Insieme per l’Europa”, un percorso comune a oltre 300 comunità e movimenti iniziato nel 1999. Il Movimento dei Focolari ha lanciato la campagna Europe time to dialogue, proprio per stimolare  il  dibattito in vista delle elezioni europee, così come fa l’Azione Cattolica con il lavoro raccontato nel sito www.iovoto.eu e la commissione Giustizia e Pace della Cei con una piattaforma programmatica. Gli episcopati della Comunità europea hanno definito il profilo del “buon candidato” e documenti specifici arrivano dai gesuiti sulla questione migratoria, da Pax Christi sulle politiche di pace mentre un decalogo sulla famiglia arriva dalla federazione europea delle associazioni familiari. E poi ci sono le istanze della finanza  etica e dell’urgenza ambientale, mentre Confindustria e i maggiori sindacati hanno siglato un appello comune per gli investimenti e la politica industriale, molto criticato dalle organizzazioni di base.

Tanti criteri di voto per un Parlamento europeo che, con il tempo, ha visto crescere i suoi poteri di indirizzo. Un percorso pubblico, alternativo ai troppi gruppi di interesse e migliaia di lobbisti presenti in sede Ue e che proprio un voto dell’Europarlamento di febbraio 2019 ha obbligato alla trasparenza. Come a dire che la democrazia è faticosa, ma bisogna saperla esercitare se si vuole incidere davvero. Con realismo e visione di futuro, senza cedere alla teoria dei complotti e alla tentazione dell’indifferenza.


IL PESO DELL’ITALIA IN EUROPA

Le regole dei giochi di potere in vista delle elezioni di maggio

di Carlo Blengini

parlamento europeo

L’Italia ha giocato un ruolo di primo piano, a livello europeo, negli ultimi anni: Mario Draghi a capo della Banca centrale europea, in scadenza però a fine anno; Federica Mogherini come alto rappresentante per gli Affari esteri e vicepresidente della Commissione, e Gianni Pittella, leader dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo (Pe), finché le sirene della politica nazionale non l’hanno richiamato in patria l’anno scorso; Antonio Tajani, presidente del Pe per la seconda metà della legislatura in corso. Rischiamo che questa costellazione favorevole alla posizione del nostro Paese nelle istituzioni dell’Unione europea (Ue) non si riproduca, almeno nel prossimo quinquennio, e forse per lungo tempo.

Le istituzioni di maggior peso politico nell’Ue sono il Pe, eletto a suffragio universale diretto e voce dei popoli europei; il Consiglio europeo, dove i capi di Stato e di governo decidono gli orientamenti strategici dell’Ue; il Consiglio (dei ministri), espressione degli interessi nazionali; e la Commissione, garante dell’interesse generale dell’Ue. La Lega conta di fare, con i suoi alleati, il botto in Parlamento, in modo da rivoltare l’Europa come un calzino. Ma per cambiare la direzione dell’integrazione europea ci vogliono i numeri che la Lega non potrà avere.

Nel Pe, popolari, socialisti e liberali votano compatti la maggior parte delle volte e gli euroscettici sono oggi lontanissimi da una maggioranza alternativa. Il gruppo della Lega, l’Europa delle nazioni e delle libertà, dovrebbe quasi raddoppiare i suoi seggi, ma non supererà il 10% dei deputati. Quanto agli altri partiti euroscettici, appartengono a due gruppi politici, i conservatori e riformisti e gli stessi popolari (cui è affiliato l’ungherese Fidezs guidato da Orban, pur minacciato di espulsione per scarsa democraticità e non rispetto dello Stato di diritto), che spesso si sono allineati alle posizioni della maggioranza tradizionale.

Molto più ragionevole appare la posizione pragmatica dei 5 Stelle, aperti, come è stato all’indomani delle politiche del 2018, ad alleanze con partiti tradizionali. Alleanze che porterebbero, sempreché il M5S riesca e formare un gruppo  al Pe, tale forza politica ad avere voce in capitolo almeno su alcuni dossier, per esempio svolgendo il ruolo di relatore o proponendo emendamenti realistici. Di fronte alla prevista debolezza di Forza Italia e del Partito democratico nel prossimo Parlamento, potrebbero essere proprio i pentastellati il partito italiano con maggior peso specifico in Europa, pur senza la rappresentanza istituzionale di cui beneficia l’Italia oggi.

In secondo luogo, non è in Parlamento che si riforma l’Europa, ma facendo pesare le proprie posizioni tra partner, con i governi degli altri Stati membri dell’Ue.

Il Pe è colegislatore, è vero, e ha ottenuto risultati importanti nella legislatura in corso, dal blocco del trasferimento di dati personali verso gli Usa alla recente adozione della direttiva sul diritto d’autore. Tuttavia, l’impulso politico all’integrazione europea viene dagli Stati membri e nelle materie più critiche il Pe gioca ancora un ruolo marginale. Per esempio,  i progressi in materia di immigrazione e asilo sono bloccati dai veti incrociati dei governi nazionali, e il Pe, in questa materia, si è limitato all’adozione di risoluzioni non vincolanti; il  Fiscal  compact e il fondo salva-Stati sono trattati internazionali, sottratti al metodo comunitario e quindi a ogni tipo di intervento da parte del Pe.

Al Consiglio europeo e al Consiglio, il nostro governo paga debolezza e isolamento: oltre il tandem franco-tedesco, in cui il gabinetto Conte non ha neanche tentato di inserirsi come terza forza propulsiva, i governi che davvero contano sono quelli che più facilmente riescono a stringere alleanze con Stati governati da forze affini, soprattutto popolari, socialisti e liberali, il che non è ovviamente il caso dell’Italia nella situazione attuale. In Commissione, il previsto risultato favorevole della Lega alle elezioni del 26 maggio permetterà, con ogni probabilità, a tale forza politica di designare il commissario italiano. Che sarà però, in questo caso, sin dall’inizio, isolato in un collegio composto da commissari per la quasi totalità popolari, socialisti e liberali (le famiglie politiche che hanno dato vita all’integrazione europea come la conosciamo) oltre, probabilmente, a un paio di esponenti dei conservatori e riformisti.

La capacità di esercitare un’influenza effettiva in seno alla Commissione è cruciale, dato che è tale organo che presenta tutte le proposte di legge europea, approvate poi dal Parlamento e dal Consiglio. Avremo forse un commissario assai visibile sui media italiani, il cui impatto politico, tuttavia, sarà poco decisivo.

Vedi anche www.stavoltavoto.eu su elezioni europee del 26 maggio

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