Fra Cronenberg e Brad Pitt
Il pubblico diminuisce, ma non la produzione di film. In Italia poi se ne girano così tanti che durano appena un fine-settimana, con incassi bassissimi. Gli stranieri invece “tirano”.
È il caso di Bullet Train diretto da David Leitch. Brad Pitt, protagonista di un cast sceltissimo, sta diventando a 58 anni sempre più bravo. Da giovane ribelle ad eroe omerico a spietato assassino ne ha interpretati di ruoli. Questa volta è uno scassinatore professionista cinquantenne inviato in missione (non usa le armi per scelta) nel supertreno velocissimo (350 kilometri orari) di Tokyo, un treno di 16 vagoni dove si annidano alcuni assassini da ogni parte del mondo ma collegati da un unico obiettivo: far fuori o esser fatti fuori da un misterioso boss assassino, “il bianco”. Energia scattante, veleni, dinamismo sfrenato, azione e ancora azione, con un bell’uso di effetti speciali, ma il film non è tutto qui.
C’è la dimensione ironica che aleggia dappertutto e Pitt si dimostra formidabile con la sua faccia ormai disincantata, le paure che lo invadono, la battuta pronta e la sindrome della sfortuna che lo perseguita, ossia del “destino”. Le considerazioni sulla vita e la morte non mancano e sembrano davvero strane in un film così urlato e coreografico, un trhiller efficacissimo – anche un po’ già visto, se si vuole -, ma che si concede dialoghi in momenti di pausa o di azione per ironizzare sulle debolezze umane e riflettere su rabbia, perdono ma anche sul fatto che nella vita tutto è in un certo senso ”relativo” (tranne che per i giapponesi “artefici del proprio destino”). Non sarà un film memorabile, ma la recitazione di Pitt e degli altri, il ritmo, vale il biglietto per due ore scarse di sangue furore velocità impossibile e gocce di saggezza spiritosa da non buttare via.
Altra cosa è invece l’ultimo lavoro di un autore come David Cronenberg, Crimes of the future, e il suo linguaggio molto particolare, estremo. Il regista canadese torna sui temi a lui più confacenti: il corpo-macchina, la carne sensuale, il mistero, il futuro. Intorno a tutto ciò, imbastisce una riflessione sull’arte, sul suo valore e su come potrebbe evolversi nella contemporaneità in una società che muta e non sempre in senso positivo.
La storia è semplice: in un futuro non troppo lontano, il corpo umano si è trasformato, generando organi nuovi e abbattendo il dolore e le infezioni. Sal Tenser (un grande Viggo Mortensen) è un artista concettuale che usa la sua stessa carne per performance come opera d’arte estrema. Circondato da medici, scienziati, artisti, stampa e curiosi egli si mette in mostra, ma la curiosità genera anche inquietudine, mistero. Non tutto della vita si può programmare, non del tutto del corpo si può usare.
Forte e disturbante, iperealistico e onirico, con attrici molto penetrate dal soggetto come Léa Seydoux e Kristen Stewart, il film sorprende, turba, fa pensare e riflettere sulla figura dell’artista in un mondo mediatico angosciante e pervasivo. Per palati resistenti, l’opera del regista apre le porte sul mistero spesso inquietante che è l’uomo, il suo corpo, la sua vita. Fino a che punto si può sperimentare?