Forti proteste antigovernative in Israele
Sabato 29 luglio, il trentesimo sabato di protesta, molte decine di migliaia di manifestanti si sono riuniti in circa 150 località di tutto il Paese. A Gerusalemme erano qualche migliaio, oltre 10 mila ad Haifa, varie decine di migliaia a Tel Aviv, dove si sono ritrovati come di consueto nella centrale Kaplan street, la strada che ha dato il nome di “Forza Kaplan” a tutto il movimento di protesta. Un picchetto formato addirittura da aderenti del Likud, il partito del premier Netanyahu, si è ritrovato alla Fortezza Zeev, la storica sede centrale del partito, per esprimere dissenso all’azione del Governo per mettere un freno alle prerogative della Corte Suprema.
Lunedì 24 luglio, infatti, il Parlamento monocamerale israeliano, la Knesset (120 membri), aveva votato la prima parte di una riforma della Giustizia voluta dall’ultima edizione (la sesta) di un Governo presieduto da Benjanim Netanyahu, che per la prima volta, oltre al Likud, conta non solo sugli ultraortodossi ma anche sull’estrema destra. La votazione ha ottenuto 64 voti favorevoli e nessuno contrario: tutti i 56 deputati delle opposizioni hanno infatti abbandonato l’aula, in segno di protesta. Il voto del 24 luglio ha abolito quella che viene indicata come “clausola di ragionevolezza”, che aveva finora consentito alla Suprema Corte di respingere senza appello qualsiasi decisione “politica” giudicata contraria alle leggi dello Stato.
Perché questa pesante prerogativa affidata ai giudici della Corte Suprema? Perché non avendo la repubblica di Israele né una Costituzione né una Camera alta (senato), come la maggior parte delle democrazie occidentali, la Corte (espressione della Magistratura, quindi di un potere indipendente da quello politico) è l’unico contrappeso istituzionale in caso di eccessi di potere esercitati dell’esecutivo. L’obiettivo dichiarato del Governo presieduto da Netanyahu è quello di arrivare a modificare i criteri di selezione dei giudici che compongono la Corte Suprema, portando da 9 a 11 il numero dei membri della Commissione che designa i magistrati della Corte, e soprattutto imponendo che 8 su 11 siano indicati dal governo. Attualmente i membri della Commissione sono 9, di cui solo 4 “governativi”. Nella parte della riforma della Giustizia non ancora presentata in Parlamento, è prevista fra l’altro anche la delega di alcuni poteri giudiziari a tribunali rabbinici, cioè tribunali religiosi ebraici.
La motivazione addotta dalle forze che compongono la maggioranza per affermare la necessità di questa riforma è che occorre mettere un freno allo “strapotere” della magistratura quando si oppone ad una maggioranza eletta dal popolo. Argomentazione peraltro non nuova a livello internazionale, particolarmente in quei Paesi dove si è affermata o insediata una maggioranza di destra.
Prospettive, queste ed altre, che rivelano la “differente” concezione dello Stato affermata da alcuni partiti israeliani che sostengono il governo: non uno Stato costituito da cittadini (anche o prevalentemente) ebrei, ma uno Stato ebraico che ingloberà i Territori palestinesi e dove chi non è ebreo non potrà realmente aspirare alla piena cittadinanza. Visioni di una destra estrema e di un ebraismo ultraortodosso che puntano a risolvere il “problema” palestinese e quello del pluralismo politico tendenzialmente eliminandoli.
In un articolo pubblicato sul Financial Times e poi ripreso da molti giornali e siti, Noah Harari, attualmente docente di World History e processi macrostorici all’Università ebraica di Gerusalemme, arriva ad affermare, fra l’altro: «La coalizione al potere in Israele è guidata da zeloti messianici che credono in un’ideologia di supremazia ebraica. Questa ideologia pretende di annettere a Israele i Territori palestinesi occupati senza concedere la cittadinanza ai palestinesi e, infine, sogna di costruire un nuovo Tempio ebraico al posto della Moschea di al-Aqsa».
Molti israeliani che protestano affermano di farlo anche per motivi non collegati alla riforma della Giustizia: per la difesa dei diritti delle donne, della comunità LGBT+ o della popolazione arabo-israeliana.
Ma c’è un altro aspetto sociale, fra i molti del conflitto civile in atto, che tocca la sicurezza e preoccupa non poco anche analisti e politici a livello internazionale. Così lo sintetizza Claudio Fontana nella newsletter di oasiscenter.eu del 28 luglio scorso: «… all’indomani del voto, sono proseguiti gli scioperi: migliaia di medici si sono astenuti dal lavoro, mentre i sindacati minacciano uno sciopero generale… Il problema più impellente riguarda i riservisti dell’esercito… Prima del voto di lunedì [24 luglio], 11 mila riservisti avevano dichiarato che si sarebbero dimessi se la riforma fosse stata approvata… Vi è poi… il capitolo dei riservisti dell’aviazione: circa 500 avevano minacciato dimissioni, e in questo caso il danno per la sicurezza israeliana sarebbe perfino maggiore perché molti dei piloti più esperti si trovano proprio tra i riservisti».