“Fontem, un popolo nuovo”
In occasione dell’uscita per i tipi di Città Nuova del libro di Michele Zanzucchi, “Fontem, un popolo nuovo”, pubblichiamo un estratto del volume, un reportage effettuato in Camerun nella tribù bangwa, con la quale i Focolari hanno iniziato nel ’66 una avventura congiunta dai molteplici riflessi: culturali, ecclesiali, economici, educativi Una vicenda ormai nota ai nostri lettori. I brani scelti presentano il college che nel ’67 è stato inaugurato nella valle di Belleh e Nveh. Il ricordo della sua ultima direttrice, Jane Dubé, recentemente scomparsa. Recandoci al college per incontrare la direttrice, ci fermiamo in una casa graziosamente affrescata sulla salita che unisce Nveh a Belleh. Qui abita Francis Tateh, maestro e memoria storica della valle, una testa fine. Tra l’altro, parliamo proprio dell’istituzione scolastica che tra poco visiteremo. Il suo pensiero è chiaro: “Del college siamo pienamente soddisfatti. Il popolo è grato perché si tratta di una scuola di alto livello che offre un’istruzione rigorosa. È una vera fortuna per Fontem, che ha visto crescere quattro o cinque generazioni di giovani formati, capaci, intraprendenti, che ora occupano posti importanti nell’amministrazione, nel sistema educativo e nell’economia”. La direttrice di Leeds E con ritardo tutto africano ci rechiamo quindi da Jane Dubé, che ci ha invece attesi con puntualità tutta inglese nella sua residenza all’interno del college “Nostra Signora della Sapienza”, una “vecchia” abitazione ingentilita da quei bellissimi controsoffitti in bambù lavorati artigianalmente ormai purtroppo sostituiti da più anonimi fogli di compensato. 29 anni fa Jane giunse da queste parti dalla nativa Leeds, dove godeva di ottime prospettive nell’insegnamento. Aveva in tasca un visto turistico. Era scesa fin qui per insegnare rudimenti di inglese ai focolarini che si erano trasferiti tra i bangwa. Non era certo previsto che si inserisse nel corpo insegnante del college. “Ma dopo mesi – mi spiega – mi venne chiesto che intenzioni avessi: tornare in patria o rinnovare il visto? Chiesi tre giorni per pensarci. Mi dissi che ero venuta a Fontem per un atto di generosità, ma dopo quei tre mesi, dovetti confessarmelo, non ero soddisfatta di me stessa. Eppure non potevo vincere Dio in generosità. Non potevo scappare, perché c’erano solo due auto in tutta la valle; a Fontem c’era solo Dio. Indossai il miglior vestito, mi recai nella cappella e gli dissi: “Resto”. Fu a quel momento che mi chiesero di lavorare al college”. La situazione sul posto non era facile in quel ’72, per diversi motivi, come già sappiamo. “Potevo dirmi ricca solo di tre handicap, che scoraggiavano il mio lavoro nel college: ero donna, ero bianca, ero focolarina. Ho cercato per quanto mi era possibile di vivere per tutti i ragazzi e per ognuno di loro. E sono ancora qui, 29 anni dopo”. Qualche dato dell’oggi. I professori sono 23, e nove gli impiegati e operai. Gli studenti sono 386, e provengono da tutto il Camerun, sia anglofono che francofono. Scelgono questo istituto perché abitano nella regione, o perché vi hanno abitato: i genitori li iscrivono, inviandoli spesso da lontano, persino dagli Stati Uniti, perché conoscano la cultura e il modo di vivere del loro popolo, sul posto. Ma la scelta viene fatta principalmente per la qualità dell’insegnamento, che segue il sistema britannico. Il college, in cui gli studenti usufruiscono di un internato che li porta a restarvi 24 ore su 24 e sette giorni su sette – salvo permessi speciali -, è forse la vera soluzione per il sistema educativo dei bangwa, perché lo studio è in questo modo regolare, e gli esami vengono sostenuti con commissioni rigorose. Gli stessi ragazzi organizzano la vita interna al college, con sport, incontri culturali, letture, preghiere, danza, musica, giornalismo E così acquistano una formazione “globale”. Più ragazze che ragazzi Nei primi anni la scuola era in pratica riservata solo ai ragazzi; ma allorché quelli del focolare la presero in mano, la aprirono di più alle ragazze, che poco alla volta sono diventate la maggioranza: attualmente sono 210, contro 176 ragazzi, quasi il 55 per cento. Trent’anni fa erano il 22 per cento, vent’anni fa il 26 e dieci anni fa il 48 per cento. “È questo – si infervora la principal – uno degli aspetti più positivi della nostra azione: la promozione e l’emancipazione della donna. Sono proprio le ragazze ad avere il miglior rendimento, e manifestano una straordinaria voglia di riuscire. D’altronde, anche nella vita sociale di tutti i giovani è la donna che lavora i campi, non l’uomo. Naturalmente, tale promozione va di pari passo con una trasformazione non facile della società: non si può cambiare la struttura sociale dall’oggi al domani senza provocare squilibri. E poi arrivano la televisione e il consumismo Tuttavia i rapporti all’interno del campus tra ragazzi e ragazze sono corretti, improntati a un grande rispetto reciproco, pur in un clima semplice e familiare”. Il contributo degli ex studenti è molto importante, anche dal punto di vista economico. Sono loro, ad esempio, che hanno finanziato la costruzione dei dormitori delle ragazze e dei ragazzi. Riprende la principal: “I nostri primi allievi hanno fatto rapidamente carriera – si annoverano un ministro, un ambasciatore, l’attuale provveditore agli studi della regione, professionisti vari, professori universitari e funzionari nello stato o in organizzazioni internazionali -, perché all’epoca eravamo dei pionieri. Adesso altre istituzioni scolastiche offrono una buona istruzione, e così far carriera non è più automatico”. Naturalmente, mi viene spiegato, l’istituto scolastico è affidato al movimento ma appartiene alla diocesi, e gli insegnanti in massima parte non sono membri dei Focolari. “La nostra spiritualità – mi spiega Jane – viene trasmessa più con l’esempio che con l’insegnamento, anche se nel nostro college ci sono importanti corsi di educazione religiosa che abbiamo basato proprio su di essa”. La campanella Quale bilancio, dopo 29 anni? “Dal punto di vista pedagogico – mi spiega Jane – è certamente positivo, nei rapporti con gli studenti ma anche con gli insegnanti e i genitori”. I genitori, appunto. “In genere delegano completamente l’educazione dei ragazzi e delle ragazze alla scuola. “Questo ora è tuo figlio”, mi dicono spesso il primo giorno di scuola affidandomi il loro ragazzo. Non è raro che degli allievi non vedano i genitori per sei mesi, un anno e anche più. Purtroppo, talvolta questi vengono a Nveh senza nemmeno venire al college, magari semplicemente perché non hanno denaro da lasciare al figlio. Perciò abbiamo sempre messo in atto ogni sforzo per convincere i genitori che i ragazzi non hanno bisogno di cose materiali, ma di affetto”. Più tardi, un giovane studente che risponde al nome nobile di Akuakem Asonganyi Defang, mi dirà: “Con i professori il rapporto è buono, ci aiutano in tutti i modi, in primo luogo quando non abbiamo voglia di lavorare sui libri. Li sentiamo come nostri genitori”. “Naturalmente – mi spiega la principal – nel college noi presentiamo la realtà della famiglia cristiana, senza denigrare per questo la famiglia tradizionale poligamica: i nostri allievi sono liberi di scegliere. Ma escono di qui coscienti di cosa significhi essere cristiani”. Altro capitolo importante, il lavoro e la sua dignità. Qui si insegna che lavorare è un dovere non solo della donna ma anche dell’uomo, e che ciò rende l’uomo più uomo e la donna più donna. “Lavoro e famiglia – riprende la direttrice – sono materie inserite nei nostri corsi, dove trattiamo della dignità della persona umana, del rispetto della donna, dell’educazione domestica, di quella alimentare, sanitaria e igienica E, a lungo termine, si coglie un’influenza sulla qualità di vita della gente”. E si capisce perché: 1.600 sono ormai gli allievi passati dalla scuola. Visitiamo il college. Una decina di edifici in cui regna una grande pulizia; gli allievi indossano la loro divisa impeccabile, anche se con un portamento tutto africano. In fondo la disciplina qui esiste, ma adattata alla realtà locale. Si vede da come studiano Nelle classi inferiori, allorché viene a mancare un insegnante, la confusione è ovviamente sovrana; mentre nelle ultime classi nello stesso caso non vola una mosca. La responsabilità esiste. Gli edifici sono costruiti con blocchi di cemento e infissi verdi, oltre ai soliti tetti di zinco e ai portici necessari nella stagione delle piogge. Semplicità, che altrove si direbbe povertà, ma qui no: tutto è degno, estremamente degno, ordinato, bello. Sì, proprio bello. Un ragazzino batte con un martello su una grande ruota metallica che funge da campanella: è il momento della ricreazione. Gli allievi sciamano fuori dalle classi, conversano in piccoli crocchi, corrono a scorrere alcune graduatorie, organizzano il pomeriggio di sport Come in un normale college. “Sono felice di stare qui – mi fa un piccolo Martin – perché so che più tardi potrò essere dottore. Così la mia famiglia vivrà meglio”. E Esther, avrà sedici anni: “Qui sto imparando a vivere da cristiana “. Paul è prossimo all’esame finale: “Voglio essere sempre un uomo che pensa al prossimo”. È uno studente molto preparato, mi dicono. College Jane Dubé Il nome del college è cambiato tra la mia visita a Nveh e l’uscita di questo libro. Jane Dubé, il 27 ottobre 2001 è infatti deceduta, precipitando in un burrone con la macchina. Quest’anno avrebbe lasciato il college. Stava tornando da Bamenda a Fontem, la principal, assieme a una collega. Transitavano in un luogo impervio, chiamato “trono di Dio”, quando la loro land rover è precipitata in un ripido pendio. Jane è rimasta schiacciata sotto l’automezzo, morendo sul colpo. La notizia si è sparsa nel territorio dei bangwa e dei mundani con incredibile rapidità, tanto che subito si è formata dinanzi al college una lunga coda di persone che volevano portare la loro testimonianza su Jane e la loro riconoscenza. Il fon stesso, il re della tribù, ha scritto: “L’intero popolo bangwa ha subìto una grave perdita. Siamo tutti in lutto. Mama Jane Dubé non è più. È morta ieri, in un fatale incidente”. Il college ha ora preso il suo nome.