Fontem ha perso il suo re

Il Fon Lukas Njifua a capo della tribù Bangua e senatore del Camerun, è morto qualche giorno fa per un malore, mentre si trovava a Yaoundé, nella capitale. Al palazzo reale di Azi lo attendeva il suo popolo per l’ultimo saluto. Vi proponiamo una sua intervista rilasciata a Michele Zanzucchi, durante un viaggio in Africa nel 2000: un tributo di riconoscenza per il suo illuminato regno
Il fon di Fontem Lucas Njifua

«A mezzogiorno abbiamo appuntamento con il fon Njifua. L’avevo già intervistato nel settembre 2000, a Roma. Eppure incontrarlo qui, nel suo regno, è tutta un’altra cosa. Si arriva ad Azi, residenza regale e baricentro della sua zona di influenza, in una ventina di minuti da Nveh. Siamo in una valle dai costoni scoscesi; capisco ora perché i primi focolarini arrivati da queste parti non abbiano voluto sistemarsi qui, preferendo la più piana e meno popolata vallata di Belleh-Nveh-Menji. Qui di posto ce n'è effettivamente poco.

A casa del ƒon

Lasciamo il vecchio palazzo del fon di foggia teutonica per scendere in un edificio attiguo più recente, nel quale abita una delle sue mogli, Anastasia. Sulla porta di casa il re ci aspetta tenendo nelle braccia la piccola Chiara, l’ultima nata. Ci fa accomodare nel salotto buono, disponibile e sorridente come sempre, attento a ogni nostro desiderio.

Per disavvertenza, mi siedo un istante accanto a lui, sullo stesso divano: un chief presente mi fa subito notare che non ci si può sedere accanto al re. Ma il fon sembra ignorare il problema, concentrato com’è nello spiegarmi il problema della conciliazione tra le due settimane, quella cristiana e quella bangwa: la prima ha sette giorni, la seconda otto. Ma la compatibilità dei due calendari è stata trovata con la fantasia: si lavora per sei giorni, e poi si festeggiano le due “domeniche”. Chiedo subito al fon Njifua qualcosa sulle vicende del suo regno, iniziato con la morte del padre, Fontem Defang. «Quando nel 1982 presi il posto di mio padre – risponde -, avvertii che avevo bisogno della sapienza di Dio per succedergli. Il mio primo impegno è stato quello di favorire l'istruzione: ho cercato di convincere i genitori a mandare i figli a scuola. Ho poi incoraggiato il popolo a piantare palme, caffè e cacao, per migliorare il proprio bilancio. La mia vita di leader non è andata avanti a forza di tangenti (qui in Camerun la corruzione ha raggiunto dimensioni enormi), ma con la generosità, cercando di dare il buon esempio. Viaggio molto nella provincia di Lebialem, per accrescere l’unità tra i diversi regni e le diverse autorità, tradizionali e politiche».

A questo proposito, mi interessa sapere come le strutture tribali convivano con le strutture democratiche del Camerun. La risposta, è decisa: «La convivenza mi sembra buona, perché l'antica organizzazione è affiliata a quella governativa. Prima eravamo autonomi, ora non più. Questo mio regno, ad esempio, era uno stato autonomo prima dell’arrivo dei bianchi; ma i colonizzatori hanno voluto tutto il potere per sé. Col ritorno dell'indipendenza nazionale, abbiamo lasciato al governo centrale la nostra autonomia, entrando però noi stessi a far parte della struttura centrale, perché il governo sa che non può fare a meno di noi. Naturalmente le infrastrutture come le strade e l’elettricità non possiamo realizzarle da soli: serve il contributo dello stato».

Un altro argomento che stimola il dialogo è il rapporto tra religioni tradizionali e cristianesimo. Il fon Njifua confessa che la risposta non è delle più facili. «Un tempo – mi spiega – praticavamo solo la nostra religione tradizionale. Il chief era anche il sacerdote, e l'ottavo giorno della settimana, along, era dedicato proprio a Dio: si ammazzavano le capre, si offrivano sacrifici e libagioni e si pregava Dio. Col cristianesimo le credenze tradizionali effettivamente vengono superate. Sapevamo che Dio-Ndem esisteva, ma non che si era incarnato in Gesù. Con la fede degli apostoli abbiamo capito di poter arrivare a Dio direttamente, senza sotterfugi. Così ora il popolo accetta entrambe le religioni. Io cerco di armonizzarle, e di spiegare qual è la giusta strada, cioè il cristianesimo. L’idea di adorare gli spiriti sparirà, anche se qualcosa delle tradizioni religiose del popolo ovviamente resterà».

Passiamo quindi a tavola: riso con ragù di pesce seccato – il piatto tipico del luogo –, innaffiato con vino rosso spagnolo. Nel corso del pranzo, il fon mi racconta la storia del palazzo della sua dinastia. Mi interessa infatti sapere se, come si dice, sia stato costruito dai tedeschi. Parte da lontano, da Fontem Asonganyi: «Dopo la guerra coi tedeschi, mio nonno fu esiliato. Liberato, tornò e volle costruire un palazzo come quelli che aveva visto nei luoghi della sua prigionia. Il palazzo fu terminato nel 1922. Il cemento fu trasportato sulla testa da cento chilometri di distanza, dalla ferrovia tedesca più vicina. Lo zinco è stato invece fatto giungere fin qui a spalla, dalla Nigeria; mentre il legno, e solo quello, è locale, lavorato con seghe a mano. I mattoni, infine, sono stati cotti in forni alimentati all'olio di palma.

Una regina, una vera cristiana

A Fontem c’è un re, il fon, e c’è una regina, la mafwa. Per tradizione è la sorella del re. L’attuale, Christina Asong, è una donna molto ascoltata nella regione, cristiana convinta e insegnante. L’incontro nell’intervallo di un meeting degli aderenti ai Focolari: per l’occasione ha voluto vestirsi con un abito ufficiale, bellissimo, giallo e rosso con grandi decorazioni a forma di animali più o meno realistici. Teme i giornalisti e di solito li evita, mi confessa; ma con me fa un’eccezione, «perché lei è un giornalista-fratello». Da lei, sorella maggiore del fon Njifua, cerco di capire qualcosa di più della personalità del padre, Defang. «Era un uomo che amava molto la verità – mi spiega la mafwa –, cosicché il suo palazzo era il luogo dove si risolvevano le controversie. Se ad esempio un uomo o una donna volevano ripudiare il consorte, si adoperava per trovare una soluzione equa, magari anche impartendo punizioni, pur di rimetterli assieme. Era un uomo giusto, che metteva i propri beni a disposizione della famiglia; ma non esitava a organizzare feste e banchetti anche per i più poveri. Pagava la scuola a chi non poteva permetterselo ma aveva il sincero desiderio di studiare. Aveva un forte senso della giustizia e distribuiva con intelligenza, perché riteneva che Dio elargiva senza fare distinzioni, e che i talenti migliori potevano nascere anche nelle famiglie povere…

Naturalmente possedeva pure un forte senso dell’autorità, ma non solo per il potere. Cosi proponeva le sue soluzioni ai singoli casi; ma, se i contendenti non seguivano le sue indicazioni, non se la prendeva, perché, come mi diceva, “Dio provvederà a tutto, anche alla legna per l’ascia”. Amava anche ripetermi: “Sono il fon, il capo, il leader; ma arriverà il momento in cui la gente mi insulterà. Servirà anche questo, e bisognerà essere pronti alla prova”. Probabilmente – prosegue Christina Asong – mi parlava così per prepararmi al ruolo di mafwa… E io, quando mi portava in giro per il regno, volevo sempre mettere i miei piedi nelle sue impronte, anche se ciò mi costringeva a fare dei passi spropositati. Ricordo anche che, ogni volta che tornavo a casa dal collegio, mi invitava a verificare l`avanzamento dei lavori all’ospedale, “perché lì – diceva – ti cureranno come un essere umano"». E conclude: «Mio padre era un uomo che amava sorridere e amava veder sorridere la gente. Come ha fatto nel 1966 con Chiara».

Michele Zanzucchi

L'intervista è tratta dal libro "Fontem, un popolo nuovo", edito da Città Nuova

Notizie sulla morte del Fon e sui suoi legami con il Movimento dei Focolari si trovano sul sito www.focolare.org

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