Il fondamento della pace
L’8 dicembre del 2016, festa dell’Immacolata Concezione (non è un caso, perché Maria viene proclamata dalla Chiesa cattolica, tra le sue diverse prerogative, anche Regina della pace), papa Francesco ha firmato il consueto messaggio per la Giornata mondiale della pace che si celebra ogni primo dell’anno. Un discorso focalizzato sul concetto di non violenza attiva. Si tratta di un appello che non può restare limitato a una giornata di celebrazioni. Il tono stesso del messaggio, intenso e profondo, dice che Francesco chiede un atteggiamento continuativo, un’azione costante, un modo di essere.
La pace, infatti, va costruita in ogni istante, in ogni circostanza e a tutti i livelli: dall’interno del nostro essere fino alle relazioni politiche internazionali, passando per i rapporti interpersonali, in famiglia, al lavoro e nei più svariati circuiti sociali e comunicativi. Francesco, quindi, ha fatto di questo messaggio – come del resto i suoi predecessori a cui spesso rimanda – un progetto culturale: ci vuole una cultura di pace.
Ma quale il fondamento? A mio avviso, se si analizza in profondità il discorso, possiamo trovare due chiavi indispensabili per una cultura di pace: la relazionalità del reale e il cuore umano. «Tutto nel mondo è intimamente connesso», afferma il testo in uno dei paragrafi finali. L’idea proviene dell’enciclica Laudato si’, ma era già stata enunciata nella Evangelii Gaudium col principio della superiorità dell’unità sul conflitto. Lo fa con forza: «L’unità è più potente e più feconda del conflitto». Bisogna riflettere su questa affermazione che ha radici epistemologiche (conoscenza della realtà naturale e sociale), antropologiche e religiose. «Tutto è intimamente connesso» significa che non c’è niente nel nostro mondo che non abbia ripercussioni sul tutto.
Non ci sono dunque, sul piano umano, azioni intrinsecamente individuali: tutto, persino i nostri pensieri più intimi, hanno una risonanza nel sociale nella misura in cui condizionano il nostro modo di porci di fronte agli altri e quindi la convivenza. Perciò la violenza, in quanto tende a distruggere l’altro rompendo la “connettività” di cui parla Francesco, è un crimine prima di tutto di “lesa” realtà. E poi, di conseguenza, di “lesa” umanità.
I violenti non si rendono conto che con i loro atti distruggono sé stessi. I masters of war (signori della guerra) oltre a ostentare il primo posto nel rango della criminalità – appunto perché la loro azione raggiunge la realtà stessa – sono gli esseri più autodistruttivi che esistano. La non violenza attiva è prima di tutto un atteggiamento di salvaguardia della realtà e della relazionalità del nostro mondo.
Per questo risulta così ottuso intraprendere una guerra per motivi nazionalistici o interessi di parte, come se questi potessero sussistere chiusi in sé stessi. La storia dimostra a fatti che la violenza genera violenza, e che tra i vincitori di una guerra presto sorgono divisioni che portano a nuovo spargimento di sangue. La non violenza, dice ancora Francesco, mantiene la pluriformità dell’unità e risolve le tensioni con il dialogo. «Non si tratta di negare i conflitti ma di capirli», come una dimensione della relazionalità del reale, che esige di trasformarli in «anelli di collegamento di un nuovo processo». Il conflitto risolto a base di dialogo potenzia l’unità e apre nuove vie e nuovi aspetti della relazionalità. Ma ci vuole il cuore.
Ecco la seconda chiave. La storia del XX secolo attesta quanto le ideologie pure generino violenza. Le idee lasciate a sé stesse sono spesso fonte di tensioni divisive, perché si staccano dal nostro centro personale. La mente da sola non è cor-diale. Infatti, la radice indoeuropea da dove proviene il termine (MÂ) significa ponderare, misurare. Neanche le emozioni da sole sono cor-diali perché guidate dagli istinti. Nelle lingue semitiche e in particolare nella Bibbia troviamo che la parola “cuore” indica l’interiorità dell’essere umano. Cuore significa anche ampiezza di sapere, globalità di visione che integra l’intelletto e i sentimenti. La non violenza di cui parla Francesco esige l’intelligenza del cuore. Solo questa si apre alla relazionalità, che nel mondo dell’umano si declina come solidarietà e fraternità.