Folco Quilici, un uomo e il suo mare
Il mio primo incontro con Folco Quilici avvenne a Roma, in via Ezio, nel quartiere Prati, che era il 2005. Io ero reduce da una serie di viaggi in Europa, per le riprese di alcuni documentari culturali e, nel mezzo, l’emittente televisiva per cui lavoravo a quei tempi, Marcopolo tv, aveva inserito questo appuntamento con il grande documentarista italiano, l’autore di quei film che da bambina guardavo con mio padre, con gli occhi spalancati e pieni di meraviglia. A casa mia, quando si parlava di documentari naturalistici, esistevano solo lui e Jacques Cousteau. Solo dopo, ma in un’altra forma, sarebbe arrivato anche Piero Angela con il suo Quark.
Mentre raggiungevo la sua casa di produzione, mi sentivo impreparata e in uno stato di totale soggezione. Stavo per conoscere un gigante del cinema, e io ero un moscerino televisivo. Quilici aveva proposto a Marcopolo di raccontare il suo amato mare attraverso i suoi filmati d’archivio, inframezzati da lunghi dialoghi con esperti, fotografi, ricercatori, anche vecchi compagni d’avventura. Io avrei dovuto fare la regia di quelle conversazioni che si sarebbero svolte sull’isola di Ponza, per lo più a bordo di un peschereccio. La prima cosa che notai, entrando nel suo ufficio, furono le pareti, ricoperte delle locandine dei film che lo avevano consacrato, come “Sesto Continente“, “Ultimo Paradiso”, “Oceano”, “Fratello Mare” e il mio preferito: “Tikoyo e il suo pescecane“, che aveva scritto con un altro mio idolo di sempre, lo scrittore Italo Calvino, e che gli era valso il Premio Unesco per la Cultura del 1961.
L’arrivo di Folco fu annunciato dallo scodinzolare di un bassotto buffo, con il muso peloso e l’aria aristocratica che si mise ad annusarmi i piedi.
«Lui è il mio amico Pioppo. Pioppo saluta! E tu sarai la “mia” regista, vero?» Folco Quilici, il gigante del documentario, mi porgeva la sua mano, mostrandosi in tutta la sua semplicità e con il suo grande amore per quell’inseparabile cane piccolo. Da quel momento in poi, “la mia regista” divenne il suo soprannome giocoso per me, in cui esprimeva rispetto e fiducia per il mio ruolo ma anche, indirettamente, la sua grandezza umana e professionale.
Lavorare con lui sul set di quella che sarebbe diventata poi la serie “Un uomo e il mare”, fu un’avventura bellissima, non priva di dialettica. Spesso discutevamo scelte o opportunità di ripresa, ma alla fine riuscivamo sempre a trovare una soluzione condivisa. Di lui mi stupiva anche quella capacità di guardare le cose con occhi di meraviglia: con le persone che incontrava, per una sfumatura di colore che il mare prendeva sul far del tramonto o per il sapere antico del pescatore proprietario del peschereccio a bordo del quale giravamo, con cui si intratteneva spesso in lunghe chiacchierate solitarie. Era ottobre e l’ultimo traghetto per la terraferma partiva da Ponza prima della fine delle nostre riprese, così gli ospiti rimanevano a cena con noi. Allora, Quilici, da uomo di mare quale era, si intratteneva con loro, condividendo generosamente i suoi ricordi, aneddoti e retroscena spesso umoristici, legati ai documentari o alle sue imprese subacquee.
Era un uomo con l’indole dell’esploratore, per mare e sulla terra ferma. Amava il viaggio, la scoperta e anche l’avventura, per davvero. E sapeva raccontare. Se c’era un’ombra nel suo passato, era il mistero intorno alla morte del padre Nello, giornalista perito nel 1940, abbattuto da fuoco amico mentre volava con Italo Balbo nei cieli di Tobruch. Ne parlava spesso, e empaticamente credevo di percepire nel suo racconto il dolore del bambino Folco, che a Ferrara riceve la notizia da un giovane e addolorato Michelangelo Antonioni, collega del padre. L’anno prima del nostro incontro aveva pubblicato anche un libro, “Tobruk 1940. La vera storia della fine di Italo Balbo”, edito da Mondadori, in cui analizzava quell’incidente, su cui aleggiava il sospetto del complotto di Mussolini ai danni di Balbo e dei suoi uomini, avversi ad una guerra al fianco della Germania nazista.
Dopo quell’avventura per mare, qualche anno dopo, nel 2009, tornammo a lavorare insieme per un’altra serie, questa volta dedicata alle sue imprese terrestri. Volle girare nel suo casale di campagna, a Ficulle, nella sala dove si trovavano le sue maschere tribali, provenienti da vari paesi africani e dall’Oceania. L’altro protagonista della serie divenne lo scodinzolante Pioppo, che in barba ai nostri tentativi di trattenerlo, finiva sempre per acciambellarsi sulle gambe del suo amico, durante le interviste. La magia si ripeté. La consuetudine e la devozione di tutta la troupe, lo misero ancor più a suo agio, e così, ci aprì le porte di quel luogo, svelandocene le meraviglie, prima fra tutte, il suo archivio fotografico. Ricordo che ce lo mostrò orgoglioso in un pomeriggio di pausa, facendoci tenere tra le mani le diapositive preziose delle sue foto nelle isole di Tuamotu, nella Polinesia Francese. Consisteva, ci disse, in oltre un milione di immagini fotografiche, su diapositive colore di formati diversi, e ci raccontò che lo stava riorganizzando perché era sua intenzione donarlo all’Archivio Alinari, cosa che effettivamente fece, qualche tempo dopo.
Oggi, mi piace salutarlo dedicandogli questa poesia di Nazim Hikmet, che ho ritrovato tra gli appunti di lavoro di quella prima serie girata insieme a Ponza, nel 2005:
Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po’ della tua ghiaia
un po’ del tuo sale azzurro
un po’ della tua infinità
e un pochino della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po’ più di speranza
eccoci con un po’ più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare.