Foibe, una pagina drammatica
Non sono passati poi molti anni da quando a scuola sedevo tra i banchi con i miei compagni. Ora mi ritrovo, come insegnante, al di qua della cattedra ad affrontare temi delicati, a volte difficili, con alunni ed alunne di appartenenza culturale e religiosa diversa. Gli eventi ed il loro impatto mediatico ci portano a dover leggere con rispetto critico ciò che succede attorno e che ci coinvolge nella prossimità delle relazioni quotidiane. Così, anche per rileggere alcune pagine della Storia diventa particolarmente importante scegliere la prospettiva con cui affrontare il discorso.
In una realtà tesa tra cultura, politica, economia e religioni, meno di un mese fa abbiamo ricordato la Shoah e le persone che in più di quindicimila campi di concentramento disseminati in Europa, hanno perso la dignità e quindi la vita. Il 10 febbraio riapriamo un’altra pagina difficile della nostra storia ricordando quanti hanno perso la vita nelle Foibe. Esse sono state il luogo in cui, alla fine della Seconda Guerra mondiale, furono uccisi e gettati, spesso dopo umiliazioni e tormenti, moltissimi italiani. Gli eccidi si svilupparono prevalentemente in due momenti: il primo, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando si scatenarono vendette e rancori mai sopiti dopo 20 anni di italianizzazione forzata da parte del regime fascista; il secondo, nella primavera del ’45, quando le truppe titine occuparono la Venezia Giulia, la Dalmazia, Trieste e parte del Friuli.
Nato il 7 settembre 1912 a Pirano (attualmente in Slovenia) Francesco Bonifacio è cresciuto in una famiglia semplice e povera. Seguendo la chiamata al sacerdozio entra nel 1924 nel Seminario di Capodistria e nel 1936 viene ordinato sacerdote. Il suo primo impegno da presbitero lo svolge a Pirano, sua città natale, ma già nel 1939 inizia a prendersi cura di una comunità di circa milletrecento anime che abitano in piccole frazioni o casolari sparsi sulle colline tra Buie e Grisignana. Scrive nel suo Diario in quegli anni: «Per conquistare le anime giovanili non occorre chissà che cosa, basta la volontà e il sacrificio disinteressato». Ed aggiunge: «Bisogna avvicinare tutti, per guadagnare a Cristo più anime che sia possibile». Negli anni difficili dopo l’8 settembre del ‘43, la popolazione dell’Istria, stretta tra gli occupatori tedeschi e il fronte titino di liberazione, vive momenti di grossa difficoltà e don Bonifacio si prodiga per soccorrere tutti, per impedire esecuzioni sommarie, per difendere persone e cose. In una sua memoria del 28 dicembre 1944 leggiamo: «Sono ormai mediatore tra Dio e gli uomini e devo eccellere nella vita, essere il pastore che conosce bene le strade della perfezione. (…) Così io devo prendere la croce con Gesù e portarla per il bene di tante anime. Non temerò il sacrificio fino alla morte». Don Francesco è un leader naturale che polarizza attorno a sé la popolazione, soprattutto i giovani che il regime totalitario vorrebbe dalla sua parte. È costretto a tenere le riunioni che organizza in chiesa, a porte aperte, per evitare che si diffondano sospetti di complotti anticomunisti. Le sue prediche sono controllate dai titini. Sono anni difficili: la propaganda antireligiosa che si fa sempre più decisa, culminerà con l’aggressione a Capodistria del Vescovo mons. Santin e l’uccisione a Lanischie del Croato don Miro Bulešić nel 1947.
Cosciente del pericolo che sta correndo, don Bonifacio scrive nei suoi quaderni: «Il sacrificio. Grande lezione d'amore che invita anche noi all'imitazione. Non c'è cattedra più eloquente per un sacerdote che deve avere il Crocifisso sempre presente ovunque si trova (…). O Gesù insegnami la pazienza e la sottomissione alla tua santissima volontà». Quando racconta al suo vescovo gli impedimenti e le minacce che subisce, mons. Santin, dal 1938 vescovo di Trieste e Capodistria, lo esorta a restare «fedele al suo dovere senza lasciarsi intimorire da nessuno». Con grande serenità il sacerdote risponde: «Era quello che pensavo, ma aspettavo che mi venisse imposto per obbedienza, perché solo così sono certo che questa è la volontà di Dio». Don Francesco, non si occupava di politica, scelse di restare per difendere la fede della sua gente dall'ateismo. «Chi non ha il coraggio di morire per la propria fede è indegno di professarla» scrive.
L’11 settembre 1946, dopo essersi recato a Grisignana per la confessione, ritorna verso casa. Lungo la strada – come confermato da parecchi testimoni – viene avvicinato e fermato da alcune guardie popolari e da alcuni soldati jugoslavi. È un prete scomodo e perciò deve essere eliminato. Dalle indagini fatte a dai racconti dei testimoni, si è giunti alla conclusione che don Francesco quasi sicuramente fu ucciso la stessa notte dell'arresto nei boschi tra Grisignana e Villa Gardossi, per mano di alcune guardie popolari mandate dalle autorità centrali jugoslave e, in un secondo tempo, gettato da altri nella foiba della campagna di Grisignana. Il decreto della Congregazione delle Cause dei Santi, del 3 luglio 2008, definisce la morte di don Francesco Bonifacio come un martirio, ucciso in odio a Dio e alla sua Chiesa e per la fedeltà al suo sacerdozio e al suo ministero.
Perché ricordare qui ora, e tra i banchi di scuola la storia del Beato Francesco Bonifacio? Forse perché, come disse mons. Santin «possiamo credere a chi sa morire come lui». Forse perché, se abbiamo il coraggio di leggere il libro della Storia dalla prospettiva dell’esperienza umana, ciò che è stato, diviene più vicino, comprensibile e quindi utile alla formazione di una cultura del rispetto, più che della tolleranza. È così forse che possiamo ricordare con la responsabilità della riconciliazione, trovando stimoli per agire nel presente guardando al futuro.