Fiori d’arancio

Francesca sposa Matteo, dopo cinque anni di fidanzamento, nel duomo di Modena. Offrono agli invitati un ricevimento nell’incantevole giardino della casa di lei. La festa prosegue fino a notte inoltrata, allorché gli sposi se ne vanno tra due ali di invitati festanti. Che c’è d’originale in tutto ciò? Nulla, salvo che Matteo è condannato. Mieloma. Tutto è detto. Quando la diagnosi venne formulata, i due sposi non erano ancora fidanzati, ma solo compagni d’università, amici e basta. Certo, attraversavano l’età del tutto è possibile, e l’uno e l’altro non erano stati esclusi dalle rispettive liste (segrete, è ovvio) di possibili pretendenti. Francesca era venuta a conoscenza della malattia prima degli altri amici, perché il suo intuito le aveva fatto capire quanto Matteo soffrisse. E, intuendo il problema, aveva scoperto di amarlo. Così si erano messi assieme, lui parzialmente all’oscuro di quello che l’aspettava; lei, perfettamente cosciente del passo che compiva. Cinque anni – il tempo programmato per completare gli studi e per trovare un lavoro adeguato -, ed ecco i due innamorati dichiararsi il sì per la vita nell’austero ma accogliente duomo romanico di Modena. Centinaia d’invitati – tutti o quasi al corrente della situazione – si accostano alla cerimonia con rispetto, nell’attesa inquieta e inconfessata della formula assai intransigente nella buona e nella cattiva sorte, e soprattutto nella buona e nella cattiva salute. Ci sarà un’inflessione nella loro voce? Chi riuscirà a nascondere meglio l’emozione? Lo sposo promesso effettivamente non ha la voce ferma, ma non ce l’aveva nemmeno prima della cerimonia. Francesca, invece, ripete sillaba dopo sillaba come se stesse declamando la costituzione della repubblica. La madre della sposa asciuga furtiva una lacrima, il padre fissa un indeterminato punto della volta. Si sente il sommesso brusio della commozione. Anelli, riso e petali, abbracci e complimenti. Poi il ricevimento, classe e buone cose della terra e del mare. Brani di vita, come sempre, si intrecciano e si accavallano, anni di lontananza. Si specchia il proprio invecchiamento in quello altrui, spesso brutale, coperto da un pietoso sei sempre uguale!. Tutto come sempre. Ma stasera l’alcol non scorre a fiumi, non si scatenano quei ritmici e stupidi bacio, bacio, bacio che ammorbano l’atmosfera. Stasera persino la repubblica dei bambini – superano la settantina, buon augurio – pare contenere strilli e birichinate. Persino i discorsi plausibili – io non l’avrei sposato, io me lo sarei preso comunque se era vero amore – mantengono il tono della giusta misura. Il gesto di Francesca, accentuato da qualche movimento scoordinato ed eccessivo dello sposo, pare rendere i presenti un po’ migliori. O meglio, i presenti sembrano voler svelare stasera i lati migliori della propria vita. Per simpatia e per solidarietà. Forse per amore.

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