Fioramonti, le ragioni delle dimissioni

«Sarebbe servito più coraggio da parte del Governo […] soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca». Ma occorre non perdere l’occasione per riflettere sul ruolo della scuola e della ricerca nel nostro Paese.

«Investimenti subito nella legge di Bilancio: due miliardi per la scuola e uno almeno per l’Università. Se non ci saranno, mi dimetto». Queste erano state le parole dell’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, in un’intervista al Corriere della Sera del 2 settembre. E così è stato; dopo l’approvazione definitiva della Legge di Bilancio 2020, la sera del 23 dicembre, il ministro 5 stelle ha inviato una lettera al presidente del Consiglio rassegnando le dimissioni e il 26 dicembre, ha pubblicato sul suo profilo Facebook le ragioni della sua scelta. «Ho accettato il mio incarico con l’unico fine di invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza» – ha scritto. «La verità, però, è che sarebbe servito più coraggio da parte del Governo […] soprattutto in un ambito così cruciale come l’università e la ricerca. Si tratta del vero motore del Paese, che costruisce il futuro di tutti noi. Pare che le risorse non si trovino mai quando si tratta della scuola e della ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore da destinare ad altre finalità quando c’è la volontà politica».

Le riserve sulla scelta del ministro sono state avanzate da più parti, specie da chi ha condiviso con lui l’esperienza di governo di questi mesi. Qualcuno sottolinea che i soldi da lui richiesti (3 miliardi in tutto) per gli investimenti sulla scuola erano eccessivi e che questo era intuibile fin da subito; qualcun altro sottolinea la strumentalità della decisione tacciandola di demagogia e di populismo; altri ancora recriminano sul fatto che Fioramonti non abbia indicato da dove prendere le risorse da investire sulla scuola. Tuttavia va dato atto che ha dimostrato quella coerenza, che tante volte, e non sempre a ragione, è stata invocata dall’opinione pubblica.

Ma occorre non perdere l’occasione che queste dimissioni ci danno: riflettere sul ruolo della scuola e della ricerca nel nostro Paese. Più che soffermarci sulla bontà o meno del comportamento di una persona, quindi, è utile riflettere sul fatto che, ad esempio, gli stipendi dei docenti di ogni ordine e grado sono tra i più bassi d’Europa, soprattutto nella progressione di carriera; oppure sul numero sempre più elevato di giovani studiosi che sono costretti a fuggire dal nostro Paese in cui vivere di ricerca è sempre più difficile; o ancora che nel settore dell’istruzione l’età media di chi ha contratti sicuri e stabili è sempre più elevata. E su tante altre questioni che hanno come radice comune la visione che abbiamo della scuola e della ricerca, ovvero dei mondi chiave per l’investimento sulle nuove generazioni.

L’Italia è agli ultimi posti in Europa per spesa pubblica in istruzione. La spesa per gli interessi sul debito pubblico è pressoché la stessa di quella sull’istruzione e dal 2008 al 2016 l’investimento pubblico sulla scuola e la ricerca è calato di quasi 6 miliardi di euro (71 miliardi e 200 milioni nel 2008, 65 miliardi e 595 milioni nel 2016). Nel 2017 il nostro Paese ha investito in questo settore circa il 3,8% del Pil, mentre la media europea è del 4,6%. Il calo più significativo si è registrato tra il 2009 e il 2011, in cui si è passati dal 4,6 al 4,1% di spesa in rapporto al Pil. In altri Paesi come Germania e Francia la quota Pil destinata all’istruzione è rimasta sostanzialmente stabile (la prima si mantiene sul 5,4%, la seconda è passata dal 3,9% del 2008 al 4,2% del 2016); per restare su queste cifre, i Paesi hanno dovuto investire maggiormente sull’istruzione. Se tutti i maggiori Paesi europei negli anni della crisi hanno ridotto la percentuale di bilancio pubblico destinata all’istruzione, la cifra stanziata dall’Italia (dal 2012 circa l’8% del bilancio pubblico) è significativamente inferiore alla media (che si attesta sopra il 10%). Se è vero che la quantità di spesa da sola non è una garanzia, né tantomeno un indicatore, della qualità del sistema educativo, occorre, allo stesso tempo, sottolineare che questi dati messi in fila raccontano di un Paese che spende meno degli altri maggiori partner europei nell’istruzione.

Questi dati, infatti, sottolineano che, per i diversi governi che si sono succeduti, a dispetto delle dichiarazioni di facciata, l’istruzione sia un investimento relativamente marginale, non importante, e una borsa da cui attingere ampiamente per fare cassa. Una scelta che rischia di essere miope e controproducente. Sia nell’immediato, per le opportunità offerte ai più giovani e il benessere all’interno dei sistemi educativi, sia sul lungo termine, per gli stessi presupposti di crescita del Paese.

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