Fino a quando?
Ci sono immagini che si stampano nella memoria collettiva, nomi di località che si imprimono nella mente, date che si ricordano per sempre. Fanno parte di un passato che continua ad interpellarci e, talvolta, non finiscono di gridarci: Mai più. Così Auschwitz, Dachau, Mauthausen… così la Colyma, la Cambogia, la Bosnia. Così prima ancora quel monte Calvario dove fu profanato fino alla morte persino un uomo-Dio. Purtroppo però, la storia si ripete e alla già lunga lista di abomini se ne aggiungono altri. Provocano sdegno, suscitano dichiarazioni di condanna, tengono desta l’opinione pubblica e poi, quasi come da copione vengono archiviati. Almeno nella nostra memoria. Per girare, dietro le quinte del nostro disinteresse, altre scene. Da qualche tempo siamo tutti scossi dalle notizie e ancor più dalle immagini di Abu Ghraib, che televisioni e giornali hanno mostrato al mondo intero. Quelle piramidi di carne umana esposta al pubblico, quegli uomini trascinati come cani, quei militari esultanti (o esaltati) davanti alla morte provocata, sono solo una piccola parte della violenza gratuita che muove la mano di chissà quante persone. Ma, viene da chiedersi, quando vediamo scene del genere, su cosa si focalizza la nostra attenzione? Sul fatto in sé, sulla malvagità di chi ne è l’esecutore materiale, sulle responsabilità dei superiori, sulle vittime? Il ribrezzo si accompagna anche alla pietà? Può succederci che ci fermiamo alla condanna ma sarebbe un passo in avanti sentire in noi lo strazio che lacera non solo la carne ma distrugge la persona. Sì perché anche chi sopravvive a un trattamento del genere, la tortura se la porta dentro per sempre. E se le ferite fisiche possono essere risanate, le cicatrici dello spirito richiedono un intervento continuato nel tempo. Contro la tortura esistono numerose associazioni, attive e combattive. Tante le campagne, viva la sensibilizzazione che ha portato, nel 1998, all’istituzione della Giornata internazionale in favore delle vittime della tortura che si celebra il 26 giugno. Sui vari metodi, sulla mobilitazione internazionale, sulla necessità di introdurre nei paesi in cui manca (compreso il nostro) il reato di tortura scrivemmo nel 2000 (cfr. n° 17/2000) e purtroppo non è cambiato molto. Di nuovo c’è che nel frattempo la Corte penale internazionale, all’epoca nella fase di ratifica da parte degli stati, è entrata in funzione. Il nostro articolo vorrebbe servire, questa volta, a sentire in noi quei colpi inferti a persone che, seppur lontane, fanno parte di noi, della nostra famiglia. Forse è una profonda partecipazione al loro dramma quella che serve a mobilitarci, quella stessa che sicuramente anima tutti coloro che attraverso associazioni, organizzazioni ed enti vari si battono contro la tortura. Quel com-patire che spinge professionisti del campo medico a curare ferite fisiche e psicologiche di chi l’ha subita, quel desiderio di risanare che mobilita tanti volontari. Non è facile guardare negli occhi una persona che ne ha fatto l’esperienza. È capitato pure a chi scrive di restare fortemente impressionata anche solo dallo sguardo di Bawer, un curdo di 41 anni che lavora a Roma in un centro di accoglienza per i rifugiati oltre a far parte del corso per mediatori culturali al san Gallicano. Lo vedi magari sorridere ma appena tocchi l’argomento ti accorgi di colpo che stai toccando una ferita ancora aperta e capisci che l’essere giornalista non ti dà il diritto di mettere il dito nella piaga. Ti basta sapere che dopo la tortura non si è più gli stessi, mai più. Ti si sporca l’anima, non ti senti più un essere umano, è peggio di morire. Così ci potrebbero raccontare Abdulhelil Abdumijit della Repubblica popolare cinese, Feng Sakchittaphong del Laos, Jeannine Bouchez Mwayuma del Congo, Perry Conner degli Stati uniti, il palestinese Omar Ghanimat, l’egiziana Amal Farouq, l’ungherese Norbert Batyi. Parti colari raccapriccianti, quelli riferiti, che lasciano senza fiato. A tutte le latitudini, sotto ogni regime, dentro qualsiasi democrazia. Davvero scariche elettriche, frustate, docce gelide, ustioni, stupri, bastonate, abusi e sevizie d’ogni genere distruggono le ossa ma più ancora l’anima. Un annientamento completo che è, il più delle volte, intenzionale. Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/ voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici:/ considerate se questo è un uomo/ che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che muore per un sì o per un no, scriveva Primo Levi nella sua celebre opera Se questo è un uomo, appunto. E il dramma è proprio che questi sono uomini, uomini e donne che hanno perso la loro identità e cercano di recuperarla, come è possibile e se è possibile. Diventa allora delicatissima l’opera di chi si dedica a queste persone. In Europa esistono alcuni centri di accoglienza per i torturati. A Copenaghen, ad esempio, a Berna, a Parigi, a Roma. Nella capitale italiana oltre all’ambulatorio dell’ospedale san Gallicano c’è quello gestito dall’associazione umanitaria Medici contro la tortura, quindici volontari tra medici e operatori (06.4461162, medcontrotortura@ hotmail.com). La loro esperienza conferma in pieno quanto abbiamo finora affermato. Sono tutti perseguitati per le idee politiche, l’etnia, la religione, il sesso – afferma il dottor Carlo Bracci presidente dell’associazione -. Li torturano non per farli parlare, ma per distruggere la loro personalità, per umiliare con loro la collettività a cui appartengono. Che rivoluzione sarebbe quel riuscire a vivere in un mondo arricchito dalla diversità di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti! Perché l’altro, sono io. Anche quando siamo diversi. CRISTIANI IN AZIONE Tra le tante organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, l’Acat, un’associazione ecumenica nata in Francia 30 anni fa. Se c’è un messaggio che ha al suo centro la vita, sicuramente è quello cristiano, incentrato com’è sulla fede in Gesù Cristo, uomo Dio che con la sua risurrezione ha sconfitto la morte. Nessuno come lui è simbolo dell’uomo innocente deriso, percosso, umiliato, straziato, condannato ingiustamente. È qui che trova il suo perché la nascita dell’Acat (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura) che dalla Francia si è poi estesa a numerosi paesi d’Europa, raggiungendo anche l’Asia, l’Africa, l’America. Associazione ecumenica, invita i cristiani alla preghiera e all’azione avendo come punti di riferimento il messaggio evangelico – in particolare il versetto di Giovanni 10,10: Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza – e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che all’art. 5 recita: Nessuno potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti. La Fiacat (www.fiacat.org), la federazione internazionale delle Acat, ha statuto consultivo presso le Nazioni unite, il Consiglio d’Europa e la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. Forte di una rete mondiale, con lettere e appelli dei suoi membri, l’Acat interviene presso i governi chiedendo loro la rinuncia a trattamenti crudeli o la liberazione dei prigionieri (com’è avvenuto con successo in alcuni casi), informa sulla tortura nel mondo, sostiene le vittime di questa pratica, invita i cristiani a pregare non solo per i torturati ma anche per i torturatori. C’è molto da fare – mi dice Mariella Corsi del gruppo di coordinamento – anche perché tanti paesi hanno firmato varie dichiarazioni contro la tortura eppure continuano a praticarla. In Italia l’Acat ha sede a Roma, vicino san Pietro, in via della Traspontina, 15 – tel. 06.6865358. Significativa una tra le tante riflessioni proposte dall’associazione. È un pensiero di Martin Luther King: Vivremo come dei fratelli o moriremo come dei folli. L’essere umano forte è colui che è capace di alzarsi per la difesa dei suoi diritti, senza restituire i colpi. Le vie d’uscita non mancano. Nonostante tutto.